“Mentre vigeva l’ordine di evacuazione, vivevo in un alloggio temporaneo in un’altra parte di Fukushima. In quel periodo ci era consentito visitare le nostre case solo di giorno, e ho iniziato a piantare molti fiori perché era tutto così triste. Ora mi rendo conto che prendermi cura di quei fiori era un modo per ricostruire me stessa”.
Questo è solo un frammento della storia di Tomoko Kobayashi, che insieme a suo marito gestisce un ryokan, un albergo tradizionale giapponese, a Odaka, una frazione della città di Minamisoma nella prefettura di Fukushima, in Giappone. Grazie a lei e alle altre persone che ho incontrato a Hamadori, la regione orientale di Fukushima che affaccia sull’oceano Pacifico, ho avuto il privilegio di conoscere più da vicino le conseguenze del disastro dell’11 marzo 2011 attraverso i racconti di chi l’ha vissuto in prima persona. E che continua a viverlo, visto che questo capitolo si è tutt’altro che concluso anche a dieci anni di distanza.
La prima volta che sono stata a Fukushima, nel 2016, Odaka era ancora chiusa ai residenti. Pochissime attività commerciali avevano iniziato timidamente a riaprire, ma le case erano ancora vuote. Da quando l’ordine di evacuazione è stato sollevato l’anno seguente, 3.650 abitanti sono tornati; solo una frazione delle 13mila persone che vivevano qui prima del 2011. Alcune sono morte, magari di vecchiaia – d’altronde è passato molto tempo – e altre, soprattutto tanti giovani e tante famiglie, si sono trasferite altrove. E pensare che Odaka è uno dei posti dove la vita, in qualche modo, sembra ripartita. Altri comuni rimangono pressoché abbandonati o per scelta dei loro (ormai ex) residenti, o perché i livelli di radiazioni sono ancora troppo alti.
Quei giorni terribili
Odaka, ora, è tutta nuova. Molti edifici sono stati spazzati via dallo tsunami e le case sono state ricostruite. È difficile immaginare come fosse durante quei giorni terribili in cui era sommersa dall’acqua. “Le strade avevano perso completamente colore. Lo tsunami ha lasciato solo grigiore dietro di sé”, ricorda Tomoko.
Quell’11 marzo – o 3/11 come la data viene scritta in Giappone – il terremoto più forte mai registrato nella storia del paese, di magnitudo 9, si è scatenato con epicentro a 130 chilometri dalla costa del Tōhoku, regione nordorientale che comprende sei prefetture, tra cui quella di Fukushima. Il sisma ha causato uno tsunami di proporzioni spaventose, un muro d’acqua alto fino a 16,7 metri che ha inondato 500 chilometri quadrati di terra nelle prefetture di Iwate, Miyagi e Fukushima, spazzando via 20mila vite umane.
L’onda ha scavalcato anche le barriere protettive di Fukushima Daiichi, all’epoca una delle centrali nucleari più grandi al mondo. L’invasione d’acqua ha messo fuori uso i generatori d’emergenza e, senza corrente, i sistemi di raffreddamento dei sei reattori della centrale si sono interrotti. Il rilascio di idrogeno causato dall’esposizione all’aria delle barre di combustibile ha provocato esplosioni nei reattori 1, 2 e 3 e il rilascio di grandi quantità di radiazioni che hanno contaminato una vasta area del nord del Giappone, e non solo.
I dettagli di quelle ore e di quei giorni, ormai, li conosciamo. Il disastro nucleare, che ha costretto oltre 100mila delle persone che abitavano entro un raggio di venti chilometri (e oltre) dalla centrale ad abbandonare le loro case, ha avuto effetti devastanti sulla società, sulla politica e sull’economia giapponese.
L’industria nucleare si è congelata, il primo ministro Naoto Kan si è dimesso, decine di migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro il nucleare, inchieste ufficiali come quella presieduta da Kiyoshi Kurokawa hanno sentenziato contro il governo giapponese e la Tepco, la compagnia elettrica proprietaria di Fukushima Daiichi. I dirigenti della Tepco sono stati portati in tribunale e poi assolti. Il disastro ha causato un danno economico di 130 miliardi di euro, 74 miliardi sono stati pagati dalla Tepco in risarcimenti, e il costo di dismissione della centrale – un processo che il governo mira a completare nei prossimi 20 o 30 anni – costerà 60 miliardi di euro secondo il governo, e tra 85 e 400 miliardi secondo altre stime. Rimangono i problemi ancora irrisolti di cosa fare della terra contaminata rimossa per abbassare i livelli di radiazioni e l’acqua radioattiva che viene usate per raffreddare i reattori.
Com’è Fukushima oggi, 10 anni dopo
Dare un senso alla complessità di questi fatti sembra impossibile. La sensazione, soprattutto nella regione orientale di Fukushima – che è una prefettura grande e quindi è importante fare distinzioni – è che questa catena di eventi non si è ancora fermata. Il peggio del dramma del terremoto e dello tsunami è passato, anche se lo spettro di morte e distruzione non ha abbandonato queste zone, né quelle colpite ancora più duramente dal maremoto, come la città di Ishinomaki a Miyagi. Ma in alcune parti di Hamadori la ricostruzione non è nemmeno iniziata perché queste zone rimangono inaccessibili a causa delle radiazioni. Viaggiando sulle strade, quelle che si possono percorrere, nelle aree interdette non è possibile fermarsi, tantomeno allontanarsi dalla strada. Tutti gli edifici – case, ristoranti, negozi – sono sbarrati da cancelli provvisori e i proprietari possono accedere solo con un permesso.
A marzo, gli alberi hanno ancora poche foglie e il riso non è ancora stato piantato. I toni invernali delle colline marroni e dei campi dorati sono accompagnati dal soffice bagliore bianco e rosa dei prugni in fiore. Segno che la primavera è alle porte. Valli strette circondate da colline boscose lasciano spazio a grandi pianure mentre, dalle montagne che dividono la zona costiera dal resto della prefettura, si va verso il mare.
Questo paesaggio sereno è interrotto, in modo apparentemente casuale, da pile di decine fino a migliaia di grandi sacchi neri. Questa è la soluzione (temporanea) per conservare la terra che è stata rimossa dai campi e dalle zone residenziali come principale operazione di decontaminazione dell’ambiente. Ora è in corso una nuova grande opera, di cui non avevo visto traccia nel 2016, ovvero la ricostruzione dei campi con terreno portato da altre parti della prefettura. Nelle distese marroni punteggiate da ruspe e operai si inizia a intuire la forma e l’aspetto di terrazzamenti di risaie.
La bonifica, però, non si può effettuare nelle foreste e nelle aree montagnose. Qui, i livelli di radiazioni rimangono alti, e infatti percorrendo in macchina una strada lungo una valle stretta con foresta su entrambi i lati, il contatore Geiger inizia a suonare per l’aumento esponenziale di radiazioni. Gli isotopi radioattivi, come quelli di cesio-137, rimangono intrappolati nel ciclo della natura in cui la decomposizione degli organismi morti alimenta la nascita e crescita di quelli viventi. Assolutamente sconsigliato mangiare funghi, piante selvatiche e la selvaggina, come i cinghiali che vengono cacciati per mantenere sotto controllo l’esplosione demografica causata dallo spopolamento umano.
Il ritorno a casa
Il contrasto con le zone riaperte e ripopolate, almeno in parte, non potrebbe essere più forte. In cittadine come Odaka si è ripreso anche a coltivare e gli agricoltori di Fukushima, regione famosa per il riso, le pesche e tanto altro, assicurano che i loro prodotti siano sicuri. I limiti di radioattività adottati in Giappone in seguito al disastro sono severi, più di quelli europei, e il sistema di monitoraggio degli alimenti in questa e altre 16 prefetture è molto avanzato. I risultati dei test sono pubblicati giornalmente. Ad esempio, dal 2012 è stato testato ogni sacco di riso prodotto a Fukushima, parliamo di circa 10 milioni di sacchi l’anno. È dal 2015 che nemmeno uno di questi ha rivelato livelli di contaminazione rilevanti.
Ryoichi Sato, nato e cresciuto a Odaka da una famiglia di contadini, è stato costretto a lasciare la sua casa per sei anni. Dopo il suo ritorno nel 2017, ha fondato l’azienda agricola Kohbai Yume Farm (kohbai in giapponese significa fiore di prugno, yume è sogno) per rilanciare il territorio. Lo ha fatto per gli amici e i parenti che sono morti, e per i residenti che sono ancora indecisi se tornare, racconta. Assume soprattutto ragazzi molto giovani e per compensare la mancanza di mano d’opera ha adottato sistemi e macchinari di agricoltura di precisione, grazie anche al sostegno del ministero dell’Agricoltura. “Non avrei mai pensato di lavorare con persone così giovani e fondare un’azienda, tantomeno con l’obiettivo di far ripartire il territorio. In questo senso, la mia vita è cambiata drasticamente”.
E poi c’è Tomoko, che ha mi ha accolta, insieme a tutti i suoi ospiti, a braccia aperte. Al ryokan Futabaya siamo un gruppo variopinto: giornalisti internazionali – due italiani (me compresa), un francese, un americano e alcuni giapponesi – e due persone di Tokyo che sono qui per partecipare a laboratori di artigianato per raccogliere fondi per la comunità.
Grazie alla rete di conoscenze del mio compagno di viaggio, Pio d’Emilia, corrispondente per l’Asia orientale di SkyTg24, che frequenta la zona da un decennio e che ormai ha molti amici qui, ogni sera c’è qualcuno a cena. Sedersi intorno a un tavolo e parlare della vita nell’ex area di evacuazione, quindi inevitabilmente anche dei tragici eventi che l’hanno segnata, a volte con serietà e melanconia e a tratti con ironia e ilarità, infonde un forte senso di comunità qui a “casa Tomoko”.
“Una cosa bella e inaspettata della riapertura di questo ryokan”, dopo il periodo di evacuazione, “è che è diventato un punto di incontro per tante persone diverse”, afferma la proprietaria, fiera di quello che ha costruito. E infatti, non ha intenzione di fermarsi. Vuole trasformare un piccolo prato di fianco all’albergo in un orto e aprire un negozio di fiori e tè alle erbe dove vendere i frutti della sua terra. “C’è ancora molto da fare, ma andiamo avanti un passo alla volta”, dice, “ho passato anni senza avere niente da fare, ora sono sempre indaffarata”.
Non si può far altro che guardare avanti
Il racconto di Yoshiki Konno, ex rappresentante di una ditta di prodotti elettronici in pensione che è sopravvissuto miracolosamente allo tsunami e che è tornato a vivere a Odaka, sua città natale, è più cupo. “Io dico alle persone di fare quello che abbiamo fatto noi, cioè di studiare e non credere che il nucleare sia sicuro”. La ripartenza dell’industria nucleare giapponese rappresenta dunque una sconfitta per Konno e un’opinione pubblica sempre più contraria a questa forma di energia, anche se non inequivocabilmente. “La storia si ripete sempre”.
In parallelo alle ambizioni climatiche del Giappone che vuole azzerare le emissioni entro il 2050, il piano del governo prevede che il nucleare contribuisca al 20-22 per cento dell’energia nazionale entro il 2030. Più o meno la stessa quota assegnata alle rinnovabili, che crescono a livello nazionale, anche se lentamente soprattutto se paragonate a Fukushima, che mira a utilizzare il 100 per cento di energie rinnovabili entro il 2040.
Le parole di Hideyuki Ban, co-direttore del Citizens’ nuclear information center con base a Tokyo, mettono le cose in prospettiva. “Sì, il governo vuole riattivare alcune centrali, ma non vuole costruirne di nuove. È prevista la ripartenza di 39 reattori, ma solo nove di questi sono stati approvati e solo tre, ora, sono realmente attivi. La riattivazione è molto lenta perché ci sono un sacco di cause in corso per bloccarla. Il nucleare, semplicemente, non ha senso ed è destinato a un inesorabile declino”.
La ripartenza dei reattori può sembrare un ritorno al passato, a un sistema disfunzionale che ha deluso i giapponesi, che si fidavano delle rassicurazioni che il nucleare fosse sicuro, e soprattutto la gente di Fukushima, una zona povera del paese dove le centrali della Tepco, per anni, sono state sinonimo di lavoro e prosperità. Ma sotto questa apparente inerzia, grandi cambiamenti sono in atto. Ci vuole pazienza per vederli.
La realtà, a Fukushima, è tutt’altro che univoca. C’è chi ha ripreso la vita di prima, magari trovando anche nuove opportunità nel vuoto lasciato dal disastro, chi lotta per ottenere giustizia e migliorare le condizioni della comunità, e chi non vuole proprio tornare. La cosa più importante, ora, è continuare a coltivare quella grande risorsa, la resilienza, che ha permesso a tanti di affrontare questi dieci dolorosi anni nonostante le ferite che si portano dietro non si rimargineranno mai del tutto. La cosa più importante, per molti, è guardare al futuro. “Noi vecchi che siamo tornati ci chiediamo cosa vogliamo lasciare a chi verrà dopo di noi,” dice Konno. “Perché se i giovani non tornano, non importa quello che facciamo, questo posto è destinato a morire. Per questo ci rimbocchiamo le maniche”.
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