In questi giorni è salita alla ribalta una relazione di una docente di pedagogia presso una istituzione scolastica fiorentina. Ma senza dubbio il fenomeno è rilevante sul tutto il territorio italiano.

L’argomento trattato ha la stessa valenza di un campo minato, il rischio è quello di essere tacciati da razzisti o maschilisti se non fosse che della questione se ne è occupata una donna e docente per giunta.

 

Ma andiamo per ordine.

Negli ultimi 30 anni chiunque ha o ha avuto dei figli in età scolare non ha potuto fare a meno di notare che il personale docente, ma anche quello ATA e dirigenziale, è divenuto prettamente e prevalentemente femminile.

La questione posta dalla ricercatrice si dirige verso una direzione che inizialmente sembrerebbe mettere in dubbio la fattiva esigenza di avere delle figure diversificate, aprendo la questione su: “Quel che ci perdiamo a non avere maestri maschi?”

Per aprire la sua dissertazione parte da una esposizione squisitamente matematica di percentuali: 3,7% i maestri uomini nella scuola primaria; 1% in quella dell’infanzia. Non da meno sono le medie e le superiori con un 17% di presenza maschile.

Ma nell’immaginario delle bambine e dei bambini quale conseguenza comporta una cosi prevalente presenza di donne?

 

E i genitori come vivono questa situazione?

Spesso sono proprio loro a additare preferenze di genere manifestando palesemente di non gradire gli insegnanti maschi per i loro piccoli, escludendo la capacità di cura e gestione degli infanti al mondo maschile e relegando, ancora una volta, la donna al mero ruolo di mamma, baby sitter…

Dall’altra parte, i bambini, assoceranno la figura femminile a unica e sola idonea alla cura della propria persona.

 

Quali conseguenze sociali implica questa scelta?

Probabilmente è da ricercare in questa teoria, in questa scelta, il fattore salariale basso di cui il personale scolastico si lamenta da tempo immemore. Probabilmente si è instaurato nell’immaginario collettivo l’idea che per svolgere il “lavoro” di mamma o di baby sitter, non è necessario essere in possesso di grandi specializzazioni, relegando ancora una volta la donna in uno di quei ruoli appetibili per il solo status di lavoro a tempo indeterminato e magari con tanto tempo libero da dedicare alla cura, ancora una volta, del proprio nido familiare.

Quindi essere insegnanti non è poi così rilevante socialmente, anzi risalta agli occhi esattamente il contrario, lavoro mal pagato, senza nessuna soddisfazione, senza possibilità di carriera alcuna. Tutti assiomi non appetibili al mondo maschile, ma che sembrerebbe appetibile al mondo femminile “predisposto” a prendersi cura dei bambini a loro affidati…

 

Ma a scuola non si dovrebbe andare per studiare? Per imparare la Storia, la Matematica, i lasciti dei nostri filosofi, i pensieri dei nostri avi, per fare cultura o sviluppare il senso critico?

Sembrerebbe di no. Ma continuiamo con ordine.

 

Chiara è l’evoluzione della società che ha portato a cambiare luoghi comuni e abitudini.

Dalla famiglia matriarcale, dove la donna si prendeva cura della prole siamo passati alla scuola matriarcale, il primo ciclo si chiama ancora scuola materna o dell’infanzia, dove la cura è delegata alla figura della maestra (baby sitter) che ha il compito di guardare 15 infanti, una famiglia poco più numerosa di quelle dei nostri nonni che di media procreavano dai 9 ai 12 figli.

 

Quindi alla famiglia di oggi che vede entrambi i genitori, giustamente, impegnati in una attività lavorativa, spesso con turni che si prolungano in estenuanti ore di lavoro non resta che delegare a altri il ruolo di sorveglianza e cura della propria prole. Con una differenza sostanziale. La baby sitter costa un tot all’ora e guarda un solo bambino, in un ambiente scolastico i costi sono quasi azzerati e nella stessa ora di lavoro il controllo, cura, diventa massivo.

 

Lungi dai nostri pensieri che una donna non sia in grado di insegnare Storia piuttosto che Matematica, ma si ha la netta sensazione che questo compito sia del tutto marginale alla primaria necessità di prendersi cura del minore.

 

Forse è proprio questo l’imprinting che si vuole dare, cosi nell’età di maggior assorbimento si installa il paradigma della figura femminile come unica e sola entità preposta alla cura e quando l’imprinting è instaurato può subentrare la figura maschile. Qui siamo già nell’istruzione di grado superiore, medie e licei. Infatti la percentuale di insegnati maschi aumenta dall’1% al 17%.

Però ormai il gioco è compiuto, si è installata nella psiche e nella coscienza collettiva la delineazione ben marcata dei ruoli da portare avanti e su cosa spetta a chi.

Donne relegate alla cura, uomini alla formazione. Ruoli disgregati e divisori. Figure delineate con forza che pochi riusciranno, da adulti, a rimaneggiare.

Oggi, lentamente, la società sta cercando di cambiare, i ruoli non sono più statici e in ogni luogo si incontrano figure che fino a qualche tempo fa erano impensabili, uomini e donne che fanno gli stessi lavori, con eguale forza di carattere a capacità, uomini e donne che si prendono cura dei loro figli in egual misura. Una società intelligente finalmente.

Solo l’ambiente scolastico sembra ancorato ai dogmi e agli stereotipi del passato. Ma, forse, per uscire da questa impasse bisogna capire e accettare che la scuola è un luogo dove l’unica sovrana è la cultura e lo studio delle scienze, non un luogo dove parcheggiare i propri figli.

 

Liberamente tratto da “Genere e processi formativi” - Sguardi femminili e maschili sulla professione di insegnante. Di Irene Biemmi Ricercatrice td presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione e dei Processi Culturali e Formativi dell’Università di Firenze

 

 

 

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