Se c’è un paese che più di tutti ha bisogno della Convenzione di Istanbul, quello è la Turchia. Dopo essere stato il primo a ratificare il testo sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica del 2011, in questi anni il governo di Recep Erdogan ha messo il mirino sulle tematiche di genere, limitando diritti e libertà. Oggi la Turchia si caratterizza per un contesto allarmante sotto questo punto di vista, con femminicidi e abusi in crescita, acuiti anche dalla pandemia da Covid-19. La decisione del governo del marzo scorso di ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul rischia di far precipitare ulteriormente una situazione già compromessa.
Erdogan contro le donne
La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica deve molto a Istanbul, la città simbolo della Turchia. È qui che il Comitato dei ministri europeo nel 2011 ha approvato il documento ed è sempre qui che vi è stata l’anno successivo la prima ratifica, quella del governo Erdogan. Entrato in vigore nel 2014, questo strumento giuridico impegna gli stati a rispondere alla violenza di genere, introduce tutta una serie di nuovi reati e impone nuove forme di tutela per le vittime di abusi e discriminazioni.
L’adesione della Turchia, come prima nazione peraltro, è stata una svolta importante per il paese. Se da una parte il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) da quando il suo leader Erdogan ha preso il potere nel 2002 aveva promosso diverse iniziative legislative contro la violenza di genere, dall’altra permanevano molte forme di discriminazione a livello sociale ma anche istituzionale. La Convenzione di Istanbul, l’entusiasmo con cui era stata approvata, peraltro in dialogo costante con le associazioni femministe locali, serviva per dare una svolta definitiva in questo senso, dotando il paese di uno strumento fondamentale per il raggiungimento di una reale uguaglianza di genere.
Nel corso dell’ultimo decennio, però, il governo si è contraddistinto per una serie di misure, esternazioni e battaglie sulla maternità e la famiglia di stampo conservatore che hanno limitato i diritti conquistati dalle donne e inasprito le disuguaglianze. Il calo dei consensi di Erdogan lo ha spinto a strizzare l’occhio all’elettorato più ortodosso e le lobby più integraliste ottengono sempre più ascolto presso le istituzioni politiche. L’Akp ha intensificato la sua crociata contro l’aborto, che nel paese è legale ma a cui è sempre più difficile ricorrere. Inoltre, il presidente turco si è più volte scagliato contro i metodi contraccettivi, dicendo per esempio che “il vero musulmano non li deve usare” e promuovendo le famiglie con tanti figli. Le donne che rifiutano di diventare madri sono state definite incomplete e deficienti, mentre lo stesso Erdogan ha dichiarato come uomo e donna non possano essere considerati uguali.
Per scongiurare la rottura dei matrimoni, sono state poi presentate diverse leggi per ridurre le tutele finanziarie per le donne divorziate. Anche lato abusi, gli sforzi governativi degli ultimi anni non sono andati nella direzione di una maggiore protezione. Addirittura, si è arrivati a parlare di amnistia per i condannati per stupro di minore, nel caso in cui decidessero di sposare la vittima.
La violenza di genere in Turchia
L’addio alla Convenzione di Istanbul è solo l’ultimo passo di un processo che sta creando un ambiente molto difficile per le donne turche. La crociata governativa contro la parità di genere, l’assenza di un reale piano di lotta alle discriminazioni e anzi la stampelle che lo stato offre ai carnefici per redimersi, sta certamente influendo sul clima culturale della Turchia. E questo si sta traducendo in dati sempre più preoccupanti, sia lato violenza di genere, sia dal punto di vista dell’inclusione sociale delle donne.
La disoccupazione femminile in Turchia fa registrare l’impressionante dato del 70 per cento. Questo significa che 20 milioni di donne turche sono fuori dal mercato del lavoro, che è dunque un affare prettamente maschile. Il paese nel 2020 si è piazzato al 130esimo posto su 153 nell’indice Global Gender Gap, che misura il livello di equità sociale e professionale tra uomini e donne. Se queste difficoltà vengono da lontano e sono stabili nel tempo, a preoccupare più di tutto oggi quando si parla di donne in Turchia è l’aspetto degli abusi e delle violenze.
Nel 2020 ci sono stati circa 300 femminicidi nel paese, ma il numero potrebbe essere superiore di almeno il 50 per cento visto che in altri 171 casi le donne sono morte in circostanze sospette. Molti decessi vengono fatti passare per suicidi, come il caso di una 23enne violentata in ufficio dal suo capo e un collega e poi buttata giù dalla finestra, facendo sembrare si trattasse di un gesto volontario. Secondo un’indagine del 2019, oltre il 40 per cento delle donne turche ha ricevuto almeno una forma di abuso nel corso della sua vita.
La pandemia dell’ultimo anno potrebbe aver dato una spinta ulteriore in questo senso: le associazioni di sostegno alle donne hanno rilevato un’impennata delle telefonate per denunciare violenze, un fenomeno peraltro registrato anche in Italia. In generale e paradossalmente, da quando la Turchia ha ratificato la Convenzione di Istanbul il numero di femminicidi per anno è raddoppiato, simbolo di come questo strumento da solo non sia stato sufficiente per cambiare il quadro. Piuttosto che rafforzarlo con altre misure nazionali, il governo di Erdogan ha però scelto di disfarsene, spianando la strada a un’ulteriore discesa negli abissi per i diritti delle donne.
Le proteste del popolo turco
Di fronte a una situazione critica di questo tipo, i movimenti femministi e le associazioni per i diritti umani non hanno mai smesso di far sentire la loro voce. Dopo l’annuncio dell’uscita dalla Convenzione nel marzo scorso, migliaia di persone si sono riversate in strada per protestare e la polizia ha risposto con la forza. Scene simili si sono viste nei mesi scorsi in occasione di alcuni fatti di cronaca che hanno scosso particolarmente l’opinione pubblica, come quello di Pinar Gültekin, una studentessa universitaria di 27 anni strangolata, data alle fiamme e poi nascosta in un bidone ricoperto di cemento dal suo ex compagno.
Tra i più attivi per i diritti delle donne turche ci sono gli attivisti di We will stop femicide, una piattaforma civile che fa monitoraggio delle violenze, offre assistenza legale alle vittime di abusi, esercita pressioni sulla politica e sensibilizza ed educa i cittadini sull’uguaglianza di genere. “I diritti delle donne sono stati costantemente violati in Turchia e se la Convenzione di Istanbul fosse stata attuata efficacemente, molti casi di femminicidi e abusi sarebbero stati prevenuti”, sottolinea Ege Çakmak, una delle attiviste, che considera i diritti e le vite delle donne in costante pericolo, con il governo che è una parte del problema invece di essere la soluzione.
“La Convenzione di Istanbul è un salvavita e piuttosto che parlare del suo ritiro dovremmo discutere di come attuare le sue disposizioni in modo efficace”.
— Ege Çakmak, We Will Stop Femicide
L’inefficacia dello strumento non è dunque dovuto a una sua debolezza, quanto al semplice fatto che la Turchia in questo decennio ne abbia sempre ignorato le disposizioni. “La Convenzione di Istanbul migliora la condizione delle donne sotto tutti i punti di vista in Turchia. È un salvavita e piuttosto che parlare del suo ritiro dovremmo discutere di come attuare le sue disposizioni in modo efficace”, continua Çakmak. “Invece di fornire protezione alle donne, la scelta di privarsi di un dispositivo così importante incoraggia inevitabilmente gli uomini a proseguire con le violenze, in un paese in cui i femminicidi sono già uno dei problemi principali”.
In ballo oggi c’è la condizione delle donne turche, i loro diritti e la loro dignità. Ecco perché la battaglia contro il ritiro dalla Convenzione è appena cominciata e non è destinata ad arrestarsi fino a quando le autorità non faranno un passo indietro. “Continueremo a lottare per i nostri diritti, affinché la Convenzione venga attuata efficacemente e a tutela di ogni singola donna in Turchia e fino a quando non ci saranno più femminicidi”, conclude Çakmak. “Non abbiamo intenzione di fermarci”.
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