Le relazioni tra l’India e la Cina non sono ottimali e uno dei principali motivi ha a che fare con l’acqua. I due paesi sono attraversati dal fiume Yarlung Tsangpo-Brahmaputra e tanto Pechino quanto Nuova Delhi da tempo sfruttano il potenziale del corso d’acqua attraverso decine di dighe sui rispettivi territori. La corsa energetica sta però diventando sempre più sfrenata e in assenza di accordi sulle risorse idriche la diplomazia tra i due paesi si sta incrinando, dal momento che ognuno punta il dito contro il sovrasfruttamento dell’altro. L’annuncio recente della Cina di voler costruire nel territorio tibetano quella che si trasformerà nella più grande diga del mondo ha suscitato le ire del governo indiano, per le conseguenze che questo avrà sui popoli fluviali indiani ma anche per la riduzione del potenziale energetico che ne deriverà a valle. È solo l’ultimo capitolo di una vera e propria guerra dell’acqua, il cui costo più alto potrebbe però essere per il Bangladesh.
Un puzzle di dighe
Il fiume Yarlung Tsangpo nasce in territorio tibetano controllato dalla Cina, a circa 4.700 metri di altitudine. Nel suo cammino attraversa l’India, dove cambia nome in Brahmaputra, per poi scorrere in Bangladesh e gettarsi nell’oceano Indiano. Il corso d’acqua svolge un ruolo fondamentale per l’economia di questi paesi. All’India fornisce irrigazione per le infinite distese di terreni agricoli, inoltre il fiume rappresenta il 40 per cento del potenziale idroelettrico del paese. Discorso simile per la Cina, che ricava una parte importante della sua energia proprio dai corsi d’acqua del Tibet occupato nel 1950. È proprio qui che nel corso del tempo ha eretto decine di dighe funzionali alle centrali idroelettriche, un attivismo infrastrutturale che ha incrinato i rapporti con l’India.
La Cina nella sua opera di sfruttamento della risorsa idrica si è avvicinata sempre di più con le costruzioni allo stato indiano dell’Arunachal Pradesh, al centro di diverse scaramucce tra i due paesi a causa di rispettive rivendicazioni territoriali che hanno causato anche scontri militari nei mesi scorsi. Questa perenne opera infrastrutturale ha causato momenti di crisi, visto che l’assenza di precisi accordi sullo sfruttamento del fiume ha sempre lasciato mano libera ai governi. Nel 2013 è nato il Brahmaputra Dialogue, un consesso volto a favorire le relazioni idriche transnazionali, ma in quanto non vincolante non è mai stato in grado di portare il sereno tra India e Cina.
Nel 2015 la fine dei lavori per la realizzazione di una diga sullo Xiabuqu, che ha interrotto il flusso del corso d’acqua, un affluente del Brahmaputra, ha causato uno scontro diplomatico. L’India, che si trova a valle e subisce dunque le conseguenze di quel che succede a monte, ha denunciato il rischio di una riduzione della portata dell’acqua nei suoi territori, con tutte le conseguenze in termini di irrigazione ma anche di potabilità dell’acqua per i suoi migliaia di villaggi fluviali. Pechino in risposta ha smesso di trasmettere a Nuova Delhi i dati sulla portata delle acque nell’alto corso, necessari per prevedere eventuali piene. E da quel momento i rapporti idrici tra le due potenze non si sono più ripresi, fino a peggiorare negli ultimi mesi.
Un nuovo capitolo del conflitto idrico
Qualche mese fa la Cina ha annunciato la costruzione di un’altra diga, ma questa volta vuole fare le cose in grande: si tratterà della struttura più grande del mondo, con 60 gigawatt di potenza, cioè quasi il triplo della più grande centrale attualmente esistente. Il piano rientra nell’obiettivo del paese di decarbonizzazione totale entro il 2060, che sta portando Pechino a investire molto sull’idroelettrico, anche più a est sul fiume Mekong. Il nuovo faraonico progetto ha però suscitato le ire dell’India, che ha annunciato ripercussioni.
“Spesso diciamo ai cinesi che qualsiasi progetto essi stiano intraprendendo non deve avere effetti negativi per l’India. Loro ci hanno assicurato ciò, ma non possiamo sapere quanto dureranno le loro garanzie”, ha affermato un funzionario del ministero indiano per le Risorse Idriche, facendo intendere come il livello di fiducia tra i due paesi sia molto basso. Come in passato, l’India ha denunciato le conseguenze negative che le opere cinesi in Tibet avranno sulle popolazioni fluviali indiane. Ma questa volta Nuova Delhi ha deciso di non restare a guardare e ha annunciato un piano altrettanto faraonico: una prima diga dalla potenza molto sviluppata, per quanto corrispondente a un terzo di quella a marchio cinese. Poi un nuovo pacchetto di 100 altre nuove dighe da realizzare nei prossimi anni, che andranno a ingrossare il parco-dighe indiano già esistente e al momento formato da quattro strutture.
Il fine del nuovo progetto da una parte è di incrementare la produzione di energia, dall’altra di affermare i propri diritti reali sul territorio conteso dell’Arunachal Pradesh, mettendo la propria bandierina in diversi punti del fiume. Un elemento che ha fatto storcere il naso a Pechino, che considera il progetto indiano una provocazione, proprio mentre i due paesi hanno ritirato i rispettivi eserciti dopo gli scontri dei mesi scorsi nel vicino Ladakh. Tra i due litiganti c’è poi un terzo soggetto, più silenzioso ma che sicuramente non gode: il Bangladesh, l’ultimo stato attraversato dal Brahmaputra e suscettibile di tutto quello che a monte l’India e la Cina stanno facendo nella loro personale guerra fluviale. La diminuzione del trasporto solido verso il delta del Bengala, causato dalle opere di sbarramento indo-cinesi, rischia di accentuare la sommersione di interi territori, amplificando le già catastrofiche conseguenze che il riscaldamento globale sta avendo sul paese.
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