Proprio all’inizio del decennio delle scienze oceaniche per lo sviluppo sostenibile eletto dalle Nazioni Unite, è stato fatto un grande passo avanti per la conservazione e lo studio degli ecosistemi. Nella parte settentrionale delle Emperor Seamounts, una dorsale montuosa sottomarina nell’oceano Pacifico nordoccidentale, un gruppo internazionale di scienziati ha scoperto a oltre settemila metri di profondità una nuova specie della famiglia dei Grimpoteuthis, nota come Dumbo octopus, il polpo Dumbo. Ma la novità della scoperta è anche il metodo di ricerca che ha utilizzato tecniche “non invasive”, nel pieno rispetto dell’habitat.
La scoperta della nuova specie di polpo Dumbo
Il polpo Dumbo, che deve il suo nome alla somiglianza con l’elefante della Disney, grazie a due grandi pinne che sembrano le sue orecchie, è considerato un organismo insolito e i suoi avvistamenti risultano ancora molto rari. Eppure, secondo gli esperti, questi cefalopodi formano una parte importante della megafauna nelle acque profonde fino ad almeno settemila metri di profondità. Tanto a fondo, infatti, i ricercatori sono riusciti a identificare il “Grimpoteuthis imperator”, dopo aver analizzato una serie di immagini di risonanza magnetica ad alto campo e scansioni, integrate da un’analisi genetica del tessuto.
I risultati delle analisi sono poi stati pubblicati sulla rivista BMC Biology e hanno confermato che si trattava di una nuova specie: gli esemplari studiati presentavano differenze nel guscio, nelle branchie e nel tratto digerente, oltre a variazioni nel sistema nervoso e negli organi sensoriali, rispetto agli altri polpi della stessa famiglia. Addirittura, alcune delle informazioni che i ricercatori sono stati in grado di raccogliere, come la forma del cuore sistemico, non sono mai state descritte prima nelle specie di polpi. E qui arriviamo a un’altra grande vittoria di questa scoperta: l’uso di tecniche non invasive.
Il metodo di ricerca non invasivo
“In zoologia, le descrizioni delle specie si basano convenzionalmente su tecniche morfologiche invasive, che spesso portano a danni degli esemplari e quindi a una comprensione parziale della loro complessità strutturale”, scrivono i ricercatori nell’articolo. Ciò significa che per descrivere gli esemplari gli scienziati sono spesso costretti a sezionare la creatura.
Questa volta invece è stato utilizzato un metodo di ricerca che si basa sull’uso di immagini e di analisi genetiche minimamente invasive che “consente descrizioni tassonomiche più complete di grandi esemplari zoologici”, senza dunque arrecare danno agli animali studiati. La buona notizia è che le tecniche utilizzate per la scansione del polpo stanno diventando sempre più popolari per identificare nuovi gruppi nel regno animale, ma fino ad ora è stata utilizzata principalmente per creature più piccole.
Quanto conosciamo gli oceani
Questa scoperta è certamente stata un passo avanti per la conservazione, lo studio degli ecosistemi e dei nostri mari. Ma quanto conosciamo effettivamente gli oceani? Ancora poco se consideriamo che ricoprono oltre il 70 per cento della superficie del Pianeta. Secondo il National ocean service, più dell’80 per cento delle acque non è ancora stato mappato, osservato né tantomeno esplorato. Soprattutto a causa dell’elevato costo e grado di difficoltà che comporta l’esplorazione dei fondali con l’uso di veicoli sottomarini. Non a caso, i ricercatori si sono affidati per lungo tempo a tecnologie come il sonar, ma allo stato attuale meno del 10 per cento dei fondali marini è stato esplorato utilizzando tecnologie moderne.
Ci resta dunque ancora molto da scoprire circa gli aspetti fisici, biologici, geologici, chimici e archeologici degli abissi oceanici e sulle loro dinamiche. Ed è proprio per questo che ci sono grandi aspettative sul decennio delle scienze oceaniche per lo sviluppo sostenibile, che hanno l’obiettivo di dare un forte slancio alla ricerca scientifica e all’innovazione tecnologica per conoscere e preservare gli oceani, i mari e le loro risorse.
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