Università e abitudini di mobilità, qual è il quadro? Cosa ci ha insegnato la pandemia e quali sono le condizioni per una ripartenza sicura (e in presenza) dopo l’estate? Matteo Colleoni insegna Sociologia dell’ambiente e del territorio all’università Bicocca di Milano; ed è il coordinatore del gruppo di lavoro mobilità della Rete delle università per lo sviluppo sostenibile. Nei giorni scorsi la Rete – che rappresenta la prima esperienza di coordinamento e condivisione tra tutti gli atenei italiani impegnati sui temi della sostenibilità ambientale e della responsabilità sociale – ha presentano le linee guida per una mobilità sostenibile post pandemia: un documento teso anche a rilanciare nelle nostre università una mobilità multimodale, connessa, condivisa, elettrica e attiva.
Avete lavorato a un questionario rivolto a studenti, ai docenti ed al personale tecnico-amministrativo di 51 Università italiane. Qual è il quadro che è emerso?
In generale la popolazione universitaria ha abitudini virtuose di mobilità: il 58 per cento utilizza mezzi pubblici per gli spostamenti, contro una media italiana che si attesta tra il 10 e il 15 per cento; e al contempo solo il 22 per cento si affida quotidianamente a un mezzo privato, rispetto alla media nazionale del 60 per cento. Ma il problema è che se gli studenti sono virtuosi, lo sono molto meno i docenti e il personale amministrativo; che peraltro, nella stragrande maggioranza dei casi, abitano più vicino alle sedi universitarie. Invece la distanza media tra le abitazioni degli studenti e gli atenei è di ben 28 chilometri, con un tempo di percorrenza di 43 minuti.
Quanto varia la situazione a seconda dei diversi territori?
Molto. Permane un gap elevato tra le esperienze più virtuose delle università del nord-ovest, dove l’utilizzo del trasporto pubblico si attesta al 67 per cento, e quelle del centro Italia dove il dato crolla di 20 punti: ciò accade perché gli atenei del centro sono tendenzialmente più piccoli e dispersi a livello territoriale. Si tende a credere che solo le grandi aree metropolitane siano congestionate dalle auto, e invece ciò avviene anche in città piccole dove l’intermodalità e il trasporto pubblico sono deboli. Un altro tema importante è relativo alla mobilità attiva: sono due spostamenti su dieci tra casa e università vengono effettuati a piedi o in bicicletta; in bici, oltretutto, la percorrenza media è di soli 2,5 chilometri, un dato che si potrebbe tranquillamente raddoppiare in presenza di infrastrutture più adeguate.
Tra i maggiori problemi emersi in questi mesi c’è stato quello dell’efficienza del trasporto pubblico. I costi a carico degli studenti dovrebbero essere inseriti tra gli interventi di diritto allo studio?
A nostro avviso sì. Nel campo dei trasporti ormai è stato sdoganato il concetto di tessera integrata che, attraverso un solo abbonamento, consente di prendere ogni mezzo. Per gli studenti, invece, si dovrebbe prevedere un libretto universitario che comprenda anche l’abbonamento del treno. Sono partite delle sperimentazioni interessanti a Pavia, Firenze e Catania ma ciò sarà possibile in maniera più organica solo con uno sforzo congiunto fra enti locali, società del trasporto pubblico e università. Ma mettere d’accordo tre realtà non è mai facile; e ovviamente non è possibile estendere questo “bonus” a tutti gli studenti: si potrebbe pensare a dei criteri base come il reddito Isee, oppure di coinvolgere solo le matricole, a maggior ragione se partono da territori svantaggiati.
Quanto vengono utilizzati i servizi di sharing mobility dagli studenti delle università italiane? C’è un potenziale di crescita ancora inespresso?
Il potenziale è enorme ma, anche da questo punto di vista, esistono grandi differenze territoriali. Nelle città che stanno puntando con decisione sulla mobilità condivisa, la risposta della popolazione universitaria è decisamente positiva; abbiamo provincie, come quelle di Brescia e di Bergamo, in cui sono state messe in campo interessanti iniziative per liberare dalle auto i quartieri universitari. Ma in quante città le amministrazioni locali sono disposte a togliere posti auto per installare parcheggi per le biciclette, o per dare vita a piste ciclabili? I cambiamenti sono lenti, anche perché spesso finiscono per cancellare dei privilegi acquisiti.
A partire dai mezzi della propria flotta e dalle infrastrutture di ricarica, quanto e come le Università italiane stanno investendo nella mobilità sostenibile?
Si tratta di una pratica molto diffusa tra le grandi università come quelle di Roma, Torino, Milano e Bologna, e molto meno tra le realtà piccole in territori difficilmente accessibili. Come gruppo di lavoro mobilità della Rus ci siamo concentrati molto sul tema dell’elettrificazione: alla base di tutto c’è il tema dell’infrastrutturazione del paese rispetto al quale, fortunatamente, il Piano nazionale di ripresa e resilienza prevede fondi ingenti.
In che modo una diversa organizzazione oraria delle lezioni potrebbe incentivare forme di mobilità “leggera”, in monopattino o in bicicletta?
I momenti di picco del traffico non sono negativi solo per l’ambiente ma anche per le modalità di mobilità più “deboli”: decongestionando le strade, inevitabilmente le forme leggere come il monopattino e la bicicletta saranno favorite e incentivate. Parlavamo da oltre 20 anni della necessità di desincronizzare gli orari ma c’è voluta la pandemia per capire davvero quanto sia importante. Gli orari di picco, sulle strade come sui mezzi pubblici, sono dettati dai cosiddetti “attrattori”: se i luoghi in cui lavoriamo o studiamo impongono tutti gli stessi orari, è inevitabile creare congestioni. Scuola e università possono organizzare diversamente le lezioni, pensando a una didattica pomeridiana e, perché no, serale.
Quanto è importante, per il mondo universitario, la trasformazione delle stazioni ferroviarie in hub di mobilità sostenibile e integrata, partendo da piste ciclabili che le colleghino con i poli universitari?
È un tema centrale che richiede, anche in questo caso, un’azione sinergica tra chi gestisce le stazioni e le aziende del trasporto pubblico. Anzitutto bisogna permettere, almeno sulle tratte che conducono in città universitarie, di caricare la propria bici sul treno. E poi servono piste ciclabili continue che conducano dalla stazione all’ateneo. Solo con un sistema di mobilità integrato e multimodale è possibile convincere gli studenti a cambiare le proprie abitudini.
Cosa ci ha insegnato l’esperienza di questi mesi in vista di una ripartenza sicura, a settembre, delle attività in presenza?
In questi mesi il trasporto pubblico ha registrato un eccesso di offerta rispetto alla domanda, ma quando si tornerà a lavorare e a studiare in presenza si tornerà alla situazione opposta. L’esperienza della pandemia ci ha insegnato che è necessario desincronizzare gli orari e attrezzarsi sulla mobilità attiva, spingendo gli studenti a raggiungere le università in bici. È inutile concentrarsi su chi abita a 30 chilometri di distanza: iniziamo da chi abita a 5 chilometri e ancora viene in auto, perché non ha ciclabili continue o perché mancano parcheggi per le bici.
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