A volte bastano un servizio al telegiornale, una foto di un’associazione, una petizione condivisa sui social a cambiare per sempre il corso della nostra vita. Un momento che passa inosservato per la maggior parte delle persone, ma che in altre riesce a risvegliare qualcosa di viscerale. È quanto succede a Sara Turetta nel 2001, quando per la prima volta scopre cosa succede ai cani randagi della Romania e capisce che il suo posto non è nell’agenzia pubblicitaria dove lavora, ma al loro fianco, a combattere per i loro diritti – e non solo – in un paese profondamente ferito. Da quel momento sono passati vent’anni e oggi Turetta è la presidente di Save the dogs and other animals, un’associazione che ha cambiato la vita di migliaia di cani sia in Romania che in Italia.
I cani, la mia vita è il nuovo libro di Sara Turetta
Abbiamo parlato con Turetta in occasione della pubblicazione del suo ultimo libro, I cani, la mia vita, edito da Edizioni sonda, in cui ripercorre le tappe principali che hanno segnato la sua permanenza in Romania, le sfide che ha dovuto affrontare, le ingiustizie con cui si è confrontata e soprattutto le vite – canine e umane – che ha salvato grazie al centro di Save the dogs. Insieme abbiamo anche discusso di attivismo, analizzato la situazione dei canili in Italia e parlato di tutto il lavoro che c’è ancora da fare.
Com’è adesso la situazione al centro rispetto a quella che si legge nel libro?
Diciamo che adesso siamo in una fase completamente diversa da quella che racconto nel libro. Lì io parlo degli inizi di questa avventura, adesso siamo molto più strutturati, abbiamo un centro bellissimo, tanti dipendenti. Siamo partiti in una maniera spartana, raffazzonata però poi abbiamo veramente realizzato qualcosa di unico di cui l’Italia deve essere fiera perché comunque c’è una bandiera italiana che sventola in cima a questo centro. Non c’è nient’altro che possiamo desiderare oltre quello che abbiamo perché abbiamo investito bene i soldi che abbiamo raccolto e perché ci siamo ispirati a delle eccellenze straniere. Abbiamo accolto altre organizzazioni rumene ed altre organizzazioni dall’est Europa. Abbiamo avuto delegazioni anche dall’estremo Oriente.
Non mi sono mai voluta accontentare di salvare qualche animale. Io volevo sviluppare dei progetti perché ritengo che l’impatto di un progetto sia molto più grande rispetto a delle azioni singole di salvataggio o di adozione. Ho sempre cercato di avere un approccio più articolato e più strutturato di intervento, cosa che però richiede molti sforzi. Ovviamente poi le difficoltà e i problemi non mancano mai.
Ad esempio?
La cosa che adesso dopo tanti anni mi stupisce ancora è la fatica che si fa a fare del bene e questa credo che sia un po’ la cosa che imparano tutti quelli che si propongono di migliorare un angolino del mondo in qualsiasi ambito. La sensazione credo che abbiamo tutti è quello di avere delle forze che remano contro e che la tua perseveranza e la tua ostinazione venga continuamente messa alla prova.
Oggi la situazione in Romania com’è?
Purtroppo, il progresso in Romania c’è stato ma molto piccolo e soprattutto c’è stato solo in alcuni luoghi, nel nord, nord ovest e ovest del paese dove c’è un tessuto sociale diverso. Lì la situazione in vent’anni è migliorata. Purtroppo, non è assolutamente successo nel sud e nell’est del paese ma in generale nelle zone rurali dove c’è un’estrema povertà, tanta corruzione, poco volontariato e una società civile inesistente.
A livello di leggi come funziona?
Le leggi sono pessime: dopo due settimane i cani vengono uccisi, non è permesso il rilascio dei cani sterilizzati, le istituzioni a livello governativo non dialogano e non hanno in agenda il tema degli animali, del randagismo. Tieni presente che la Romania continua a essere un paese da cui si emigra, dove non si torna perché non viene offerta una qualità di vita buona e quindi chi emigra tendenzialmente tende a non tornare per cui è un paese anche in grandi difficoltà nel trovare professionalità, i giovani qualificati vanno via, vanno all’estero, quindi ecco ricostruire un paese così è difficile, molto difficile.
Nel libro ha fatto una riflessione molto bella sull’attivismo, sul fatto che a volte sembra quasi che ci sia una scala gerarchica che decide quali categorie di deboli vadano aiutate prima e quali dopo, quando in realtà l’aiuto di una non esclude l’altra. Come mai secondo lei c’è ancora questo preconcetto?
Sarebbe bello, e credo che un pochino questa cosa stia avvenendo, avere uno sguardo inclusivo cioè non “o, o”: non escludere categorie di soggetti sofferenti e fare delle classifiche, ma scegliere “e, e”. È più facile rispetto all’ambiente che non rispetto agli animali perché l’ambiente viene visto tutto sommato come un tutt’uno con gli uomini e diciamo si inizia veramente a capire che dalla salute dell’ambiente dipende la nostra salute. Solo che non si riesce a vedere gli animali come parte integrante dell’ambiente.
Le ingiustizie del mondo sono sempre figlie di una medesima mancanza di rispetto per il valore della vita, in tutte le sue forme.
Se capissimo che non ci si salva da soli, ma ci si salva insieme agli animali e all’ambiente, si smetterebbe di criticare chi si dedica a qualcosa che è altro dall’umano perché si capirebbe che in realtà il lavoro di Save the dogs o il lavoro delle organizzazioni ambientaliste o di chi si occupa di animali selvatici ha un riflesso positivo su tutti, su tutta la comunità umana.
Tra l’altro fenomeni come il randagismo hanno anche radici e conseguenze sociali.
Il randagismo è un fenomeno che se non viene messo sotto controllo porta a problemi enormi di salute alle persone, perché ci sono dei rischi a convivere con branchi di cani ma anche per l’ecosistema. Penso ad esempio all’ibridazione con il lupo.
Poi è ovvio che dei bambini che crescono vedendo degli animali, come i randagi, accalappiati, trascinati, soffocati, rinchiusi in gabbie e poi eliminati senza nessun tipo di attenzione, senza nessun rispetto, quei bambini cresceranno con la violenza negli occhi e con l’idea che tutto questo sia legittimo e lecito. Ci sono tanti studi che dimostrano che spesso sono proprio i minori che esercitano violenza sugli animali che poi crescono con comportamenti sociopatici o addirittura criminali. Insegnare il rispetto, la tutela, la dignità delle altre creature in realtà equivale a trasmettere questi valori all’intera società.
Non vedo il nostro lavoro alternativo a quello delle organizzazioni umanitarie, lo vedo complementare.
Voi siete attivi anche in Italia. Secondo lei la situazione nel nostro paese com’è in questo momento e su cosa dovremmo lavorare?
Guarda, la situazione nel nostro paese è spaccata in due. C’è un nord Italia, e per nord intendo diciamo dalla Toscana, dalle Marche in su, dove si è arrivati ad un’ottima situazione per quanto riguarda il randagismo, che praticamente non esiste. I canili sono sostanzialmente sotto controllo, si sterilizza e si adotta anche dal sud. Negli ultimi trent’anni questa parte d’Italia ha fatto passi da gigante, la situazione è buona e anche il volontariato è molto attivo e presente.
Al sud invece la situazione è molto grave, con delle differenze tra le regioni, ma sicuramente in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia e per certi aspetti anche in Sardegna la situazione è molto grave. L’Umbria, invece, ha fatto una legge regionale che impedisce l’uscita dei cani dalla regione, in pratica impedisce l’adozione fuori dall’Umbria stessa.
Per quale motivo?
Loro sostengono per tutelare il benessere degli animali, ma in realtà è una cosa di una gravità inaudita e anche molto poco conosciuta. È assurdo che questo possa avvenire, quando ci sono decine di migliaia di cani dalle altre regioni del sud che vengono spostate al nord per trovare una famiglia.
Nel sud Italia cosa state facendo?
Noi da due anni stiamo lavorando in Campania. Da quest’anno lavoreremo in Calabria con attività di prevenzione e contrasto al randagismo, principalmente con campagne di sterilizzazione di cani di proprietà, ma stiamo anche costruendo dei percorsi con le amministrazioni pubbliche per far sì che i comuni e le asl si prendano la loro responsabilità e facciano la loro parte.
Chiudere i cani in canile non è la soluzione al randagismo.
Bisogna agire a monte e diffondere la sterilizzazione come buona pratica e la detenzione responsabile dei propri cani, che prevede l’iscrizione in anagrafe, non far vagare gli animali e non farli riprodurre in maniera incontrollata.
Quanti sono i cani randagi in Italia?
Secondo l’ultimo rapporto Lav, ci sono più di 100mila cani nei canili italiani e questo già la dice lunga. È un dato inaccettabile per un paese civile. Quindi va bene che i cani non si sopprimano e noi sbandieriamo questa cosa come una grande conquista, ma se i cani non vengono uccisi e vengono rinchiusi a vita in canili che in Calabria arrivano a toccare le duemila unità, capisci che la cosa non ha senso. La Romania ha canili con duemila cani. Ci rendiamo conto di cosa stiamo parlando? Ecco, è impossibile tutelare il benessere degli animali in queste condizioni e ci sono molti canili dove i volontari non riescono ad entrare perché non c’è lo stato di diritto, perché non c’è una situazione di legalità. Tutto questo dovrebbe veramente suscitare l’indignazione e la ribellione dei cittadini e delle stesse amministrazioni comunali che invece spesso se ne lavano le mani.
Come mai l’Italia è così spaccata per quanto riguarda il randagismo?
Ci sono vari fattori: si incrocia un fattore culturale che è quello che appunto fa sì che chi possiede un cane in alcune zone italiane non lo viva come il cane di cui sono responsabile 24 ore al giorno e che quindi sta con me, nella mia proprietà, sta con la famiglia, viene in vacanza. Al contrario, il cane viene lasciato spesso libero di uscire e vagare quindi non c’è una responsabilità totale su quell’animale. Andando in giro ovviamente si accoppia e alimenta il randagismo e al sud la pratica della sterilizzazione culturalmente è molto meno accettata che al nord. Poi c’è la questione del volontariato, che è più strutturato al nord. E infine, la mancanza di legalità e la corruzione fanno sì che i cani vengano trattati come una fonte di reddito per imprenditori senza scrupoli, spesso conniventi con rappresentanti delle istituzioni. Queste situazioni c’erano anche al nord ma sono state combattute e sono state eliminate anche con delle leggi regionali efficaci. Poi però c’è la legge regionale della Calabria che consente di avere canili con duemila cani mentre nel nord Italia il numero massimo è 200. Alcune leggi sono state fatte per agevolare l’accumulo di cani e l’arricchimento di chi sulla pelle degli animali fa un sacco di soldi, che non era minimamente lo spirito della 281, la legge del randagismo. Quindi, ecco: corruzione, mancanza di legalità e problemi culturali e di mentalità. È un incrocio di questi fattori.
I cittadini come possono aiutare?
Sicuramente sostenendo organizzazioni come Save the dogs, sostenendo i nostri progetti perché stiamo cercando di avere un impatto misurabile in modo da andare dalle istituzioni e dimostrare che è possibile risolvere i problemi, è possibile avere delle strategie vincenti. Quindi sicuramente sostenere con il 5 per mille, con donazioni, con le adozioni a distanza le associazioni serie e trasparenti. Non bisogna donare a prescindere ma donare a chi spiega bene che cosa fa, che spiega e dimostra come spende i soldi. Questa è una cosa importantissima. L’altra cosa è di far sentire la propria voce e di far capire a coloro che votiamo che questi temi sono importanti e quindi che non sono questioni di serie B, C, D ma che agli italiani il benessere e i diritti degli animali interessano. Perché solo quando verrà capita questa cosa la politica si farà veramente carico di questi problemi.
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