In Giappone pochi attivisti per l’ambiente – e poche donne – possono dire di avere influenzato direttamente le politiche del governo, sopratutto in materia di energia. Kimiko Hirata è uno di questi. “Per avere combattuto per fermare la costruzione di 13 centrali a carbone, e avere vinto”, e quindi “evitato miliardi di tonnellate di emissioni di CO2”, Hirata, figura chiave del movimento contro il carbone nel suo paese, è la prima donna giapponese a vincere il Goldman environmental prize.
Chi è Kimiko Hirata, vincitrice del Goldman 2021
Come per molti della sua generazione, il destino di Hirata cambiò grazie ad Al Gore. Dopo avere letto il libro La terra in bilico di Gore negli anni Novanta, Hirata decise di dedicarsi a tempo pieno alla lotta ai cambiamenti climatici, viaggiando negli Stati Uniti per scoprire di più sul movimento ambientalista. Tornata in Giappone per il summit di Kyoto del 1997, partecipò al processo che risultò nella firma del protocollo di Kyoto, il primo accordo internazionale per limitare le emissioni di CO2.
Questa tappa fondamentale segnò solo l’inizio di un lungo percorso per Hirata. L’anno dopo il summit, l’attivista fondò Kiko network, una ong giapponese impegnata nella lotta al riscaldamento globale di cui è tutt’ora la direttrice internazionale. E la campagna di Hirata assunse un significato ancora più decisivo quando, nel 2011, il futuro del Giappone cambiò per sempre.
Fukushima e il movimento contro il carbone
Gli eventi scatenati dal terremoto e del maremoto dell’11 marzo 2011 li conosciamo bene. Furono inondati 500 chilometri quadrati della regione nordorientale del Tōhoku, spazzate via 20mila vite umane, e lo tsunami causò il disastro nucleare di Fukushima. Oltre all’evacuazione di decine di migliaia di abitanti – molti dei quali non sono ancora tornati a distanza di 10 anni – il disastro costrinse il governo a bloccare tutte le centrali nucleari del Giappone, che all’epoca fornivano un quarto del fabbisogno energetico del paese.
Al loro posto, si decise di tornare a utilizzare in modo massiccio la fonte di energia più pericolosa al mondo: il carbone. Allarmata da questi eventi, Hirata, insieme a Kiko network, lanciò una campagna contro il carbone perché “a differenza del nucleare, le persone non conoscevano i rischi legati a questo tipo di energia”, ci racconta. Il carbone, infatti, emette il doppio della CO2 di altre fonti fossili ed è la più grande minaccia per il nostro clima. Nonostante questo, il governo giapponese colmò il vuoto lasciato dall’incidente di Fukushima programmando la costruzione di 50 nuove centrali a carbone entro il 2015.
Il Giappone divenne così il quinto paese al mondo per emissioni di gas serra, il terzo per importazioni di carbone e l’unico del G7 con così tante centrali a carbone in programma.
La campagna contro il carbone di Kimiko Hirata
Per fermare queste politiche regressive e pericolose, Kiko network ha portato avanti una campagna di portata nazionale e internazionale, facendo rete con le comunità locali nei luoghi destinati a ospitare le centrali a carbone. Hirata è intervenuta direttamente nelle udienze pubbliche per opporsi a questi progetti e sostenere i cittadini nel fare sentire le loro voci. L’alleanza ha visto coinvolte altre figure come esperti, avvocati, giornalisti e altre ong, anche internazionali. Con Greenpeace, ad esempio, Kiko network ha redatto un importante rapporto nel 2016, il primo a rivelare come le centrali a carbone in programma avrebbero causato la morte prematura di mille persone all’anno in Giappone.
I frutti dell’impegno di Hirata e del movimento per il clima sono arrivati nel 2019, con la cancellazione di 13 nuove centrali a carbone progettate in tutto il Giappone. In questo modo sono state evitate 42 milioni di tonnellate di CO2 all’anno o l’equivalente delle emissioni di 7,5 milioni di automobili ogni anno per quarant’anni. E nel 2020, Hirata ha ricoperto un ruolo fondamentale nella creazione della risoluzione per il clima contro il gruppo finanziario Mizuho – la prima di questo tipo in Giappone – che chiedeva al colosso finanziario giapponese di rendere pubblico l’impatto sul clima dei suoi investimenti nelle fonti fossili come il carbone, e il suo impegno per cambiare rotta. La risoluzione non è stata accettata dagli azionisti di Mizuho, ma ha ricevuto il sostegno di oltre un terzo di essi e generato la pressione necessaria per convincere fino a una decina di aziende giapponesi ad annunciare che non avrebbero più sostenuto nuovi progetti legati al carbone.
Vittorie importanti che, però, non segnano la fine del percorso di Hirata, Kiko network e la rete Climate action network Japan che riunisce altre realtà giapponesi impegnate nella lotta per il clima e di cui l’organizzazione di Hirata fa parte. Se da un lato il Giappone vuole azzerare le sue emissioni nette entro il 2050, la strada per farlo è ancora da decidere. Gli attivisti chiedono che la terza economia globale abbandoni del tutto il carbone entro il 2030 e completi la sua transizione alle energie rinnovabili entro il 2050. Come ci racconta Hirata, c’è ancora molto lavoro da fare.
Come hanno contribuito le comunità locali al movimento contro il carbone?
Il ruolo delle comunità locali e della resistenza locale è stato fondamentale. In Giappone è difficile influenzare direttamente le politiche del governo. Per questo, Kiko network ha deciso di lavorare direttamente con gli individui – i leader delle comunità, i professori, gli esperti – per creare una voce unita per il cambiamento. La collaborazione, il sostegno e il coinvolgimento delle persone, delle ong e delle istituzioni locali ha dato vita a tanti movimenti locali che hanno amplificato l’impatto del nostro movimento contro il carbone. Anche questo ci ha permesso di bloccare 13 progetti per centrali a carbone in Giappone.
Considerando invece che il Giappone ha deciso di riattivare i suoi reattori nucleari, si potrebbe dire che il movimento contro il carbone ha avuto successo laddove quello contro il nucleare ha fallito?
La campagna anti-nucleare non è stata un fallimento: la maggio parte dei giapponesi è fortemente contro la dipendenza dall’energia nucleare. Infatti, il movimento contro il carbone è in parte sostenuto dalle campagne contro il nucleare, il che ha messo l’industria nucleare e il governo in una situazione difficile nel cercare di riattivare un numero sufficienti di reattori. Ma abbiamo sentito il bisogno di costruire un nuovo movimento contro il carbone perché, a differenza del nucleare, le persone non conoscevano i rischi legati a questo tipo di energia. Per raggiungere una transizione energetica sostenibile, il Giappone deve abbandonare completamente il carbone entro il 2030, insieme al nucleare. Non è un compito facile, ma il potenziale per fonti come il solare, l’eolico e il geotermico è grandissimo. Rimango quindi fiduciosa che una transizione rapida sia possibile.
Il mondo della finanza sta facendo la sua parte nella lotta contro i cambiamenti climatici?
Il sostegno per la decarbonizzazione sta crescendo nel settore finanziario ma le compagnie finanziarie e i decisori a livello nazionale devono fare di più per allineare la finanza pubblica e privata con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, ovvero di limitare l’innalzamento delle temperature globali a 1,5 gradi. Sappiamo bene che gli investimenti nei progetti che utilizzano fonti fossili devono essere fermati se vogliamo limitare il riscaldamento globale a questa soglia. Sia il settore pubblico che quello privato devono raddoppiare i loro sforzi per accelerare la transizione finanziaria via dalle fonti fossili.
Cosa possono imparare gli attivisti ambientali di tutto mondo dalla sua battaglia contro il carbone in Giappone?
Come ong giapponese, siamo una squadra di una decina di persone, abbiamo combattuto e siamo riusciti ad avere un impatto sull’espansione del carbone in Giappone. Potrebbe sembrare difficile cambiare il sistema di approvvigionamento dell’energia elettrica attraverso le azioni individuali. Ma il nostro lavoro ha generato la forza necessaria perché ci hanno sostenute le persone locali, gli esperti e le altre ong. Per salvare il clima abbiamo bisogno di cambiamenti a livello sistemico, e noi cittadini dobbiamo fare parte di questi cambiamenti. Siamo a corto di tempo per fermare una catastrofe climatica. È importante, dunque, che ognuno di noi si informi su quello che può fare, a chi deve rivolgersi, come si possono costruire partnership e coalizioni, e usare questa voce collettiva per mettere in atto i cambiamenti che desideriamo vedere. Non si tratta solo di piccole azioni individuali, come il risparmio energetico. Ci sono molte altre cose che, come individui, possiamo fare.
La Cop 26 si terrà a Glasgow, in Scozia, alla fine di quest’anno. Cosa si aspetta dalla conferenza? Pensa che i leader politici giapponesi siano all’altezza di questa sfida e, più in generale, quella dei cambiamenti climatici?
In Giappone, il concetto che bisogna azzerare le emissioni sta diventando sempre più comune, ma il percorso per raggiungere questo obiettivo non è ancora stato delineato (dal governo, ndr). Anche molte aziende non sono ancora pronte a decarbonizzazione le loro attività. Spero che la Cop 26 sia un momento critico a livello politico per incrementare le ambizioni, raggiungere collettivamente lo zero netto e creare un forte moto a livello internazionale per rafforzare le politiche e accelerare le azioni climatiche. È un’opportunità per il Giappone per essere più partecipe e ritagliarsi un ruolo importante negli sforzi globali. Il governo dovrebbe arrivare preparato. Come? Rafforzando le sue politiche climatiche e impegnandosi ad abbandonare il carbone entro il 2030.
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