Il motore di una vecchia moto Tvs indiana borbotta lungo la strada Rn15, nel tratto che da Sévaré porta a Mopti, capoluogo della regione omonima nel centro del Mali. Mandrie di zebu calpestano la terra riarsa, sollevando una fitta coltre di polvere. Si lasciano alle spalle l’ambiente semi-desertico saheliano per giungere a una distesa d’acqua intricata e tranquilla dai margini ancora verdi nonostante l’approssimarsi della stagione secca. Questa città fluviale, storico crocevia di mercanti e merci di ogni genere si affaccia sul delta del fiume Niger, attorno al quale si sviluppa la vita dell’intera regione, un tempo in pace e oggi al centro della guerra al terrorismo nel Sahel.
In sella alla sua motocicletta Hamidou Guindo si addentra nei vicoli della medina, schivando animali, bancarelle e gruppetti di persone intente a bere il tè alla menta all’ombra della grande moschea di Komoguel, in stile sudanese, realizzata in pietra calcarea, fango e legno. Superati i labirintici meandri cittadini la moto giunge al porto. Decine di grandi barche variopinte sono ormeggiate nei caotici moli, dove brulicano mercanti di pesce d’acqua dolce e balle di bourgou, una pianta semi-acquatica tipica del delta fondamentale per il foraggio del bestiame.
“In città merci e uomini continuano a circolare, ma tante barche restano ormeggiate perché a qualche chilometro da qui ci sono gli jihadisti”, afferma Guindo che un tempo lavorava come guida turistica tra Mopti e la celebre falesia di Bandiagara, nella terra dei dogon: “All’aeroporto di Sévaré atterravano voli charter dalla Francia! C’era lavoro e si poteva andare ovunque. Ora circolare con un toubab (un bianco occidentale, ndr) è pericoloso e mettere piede fuori dalla città quasi impossibile anche con la scorta. Meglio non farsi notare perché le spie sono ovunque e non ci si può fidare più di nessuno… nemmeno dei tuoi vecchi fratelli”.
Un po’ di storia recente del Mali
Cartina delle Nazioni Unite (Onu) alla mano, Mopti è un puntino su una mappa rossa. Una zona in cui è sconsigliato recarsi. La città è infatti al centro del conflitto maliano iniziato nel 2012, quando gli indipendentisti tuareg del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla), assieme ai loro alleati, gruppi armati di jihadisti confluiti in Mali dal conflitto libico, hanno preso il controllo del nord del Paese. Gli estremisti hanno cercato inoltre di marciare verso la capitale Bamako, costringendo quindi il governo a chiedere un intervento militare della Francia, l’ex potenza coloniale. Un intervento che ha bloccato l’avanzata dei gruppi e liberato alcune città chiave, come Timbuktu.
A seguito dell’azione di Parigi, l’Onu ha inviato la missione di pace Minusma che, ad oggi, conta 15mila caschi blu. Un quadro complicato a cui si aggiungono, nelle varie fasi evolutive del conflitto, molte altre forze straniere, intervenute nell’intera regione del Sahel che, nel frattempo, è diventata uno dei principali fronti della lotta al fondamentalismo. Ad esempio l’Unione europea ha inviato istruttori per addestrare reparti dell’esercito del Mali, mentre l’appena nata task force Takouba, a comando francese, vedrà impegnati reparti speciali di diverse nazioni europee, tra cui l’Italia che ha iniziato le operazioni lo scorso marzo.
Se gli accordi di pace di Algeri del 2015 hanno portato al tavolo delle trattative i secessionisti tuareg dell’Azawad, non è stato così per gli jihadisti, ad oggi impossibili da arginare. Sono centinaia i soldati maliani e decine i caschi blu e i soldati francesi uccisi in combattimento o in attentati dinamitardi. Si stima che l’80 per cento del Mali sia direttamente o indirettamente controllato dal Gruppo per il sostegno all’Islam e ai musulmani (Gsim), nato nel 2017 dalla fusione di vari gruppi qaedisti, e dallo Stato Islamico nel grande Sahara (Sigs), diffuso ormai in gran parte della regione orientale del Paese. I cartelli vivono di traffici illegali di ogni genere, sono ben armati, organizzando rapimenti e agguati (nel mirino spesso gli occidentali, soprattutto giornalisti), e lottando tra loro in un’area che ha travalicato i confini nazionali destabilizzando ampie zone dei paesi vicini, all’interno del famigerato Liptako-Gourma, conosciuto anche come zona “delle tre frontiere”.
Qui, nel centro del Mali, l’instabilità è arrivata tra il 2015 e il 2016, assumendo i tratti di un conflitto intercomunitario, fomentato e sfruttato dei fondamentalisti per consolidare la loro presenza nel territorio. Le varie etnie, bambara, dogon, peul e bozo, hanno sempre co-abitato pacificamente nella regione, con piccoli momenti di tensione ogni tanto, in particolare tra agricoltori sedentari e allevatori nomadi. Questioni che venivano risolte tramite pratiche ancestrali consuetudinarie. Oggi questo equilibrio sembra essersi spezzato.
Come il Mali si sta radicalizzando
Ne è convinto Modibo Galy Cissé, antropologo specializzato nel fenomeno della radicalizzazione nella zona e ricercatore dottorando all’Università di Leiden, nei Paesi Bassi: “Gli jihadisti reclutano facendo leva sull’estrema povertà di giovani non istruiti, disoccupati e senza prospettive. Offrono loro denaro e li indottrinano facilmente. Se a ciò si aggiunge la presenza di gruppi etnici che si sentono marginalizzati come i tuareg del nord e i peul del centro, entrambi a maggioranza musulmana, è facilissimo usare antiche recriminazioni per farli aderire alla jihad”. Cissé è un peul e ricorda in proposito come il predicatore Amadou Koufa, una delle figure di spicco del Gsim, in passato abbia invocato la “jihad dei peul” spingendo molti giovani emarginati, o vittime di abusi interetnici, a radicalizzarsi.
I cartelli fondamentalisti hanno attaccato duramente gli agricoltori di etnia dogon e bambara, meno disposti ad abbracciare un islam fondamentalista. Queste comunità hanno risposto formando delle milizie di autodifesa formate da cacciatori tradizionali, dozos, per proteggere i villaggi. I miliziani hanno organizzato raid contro gli jihadisti, ma prendendo di mira anche civili peul di diversi villaggi e alimentando così un ciclo di vendette senza fine. “È una guerra fratricida resa particolarmente sanguinosa dalle atrocità commesse da tutti gli schieramenti. Lo Stato ha abbandonato queste zone e non esistono più regole, né giustizia”, conclude sempre Cissé. Dinamiche che dal Mali si sono diffuse specularmente anche nei paesi vicini come testimoniato dal Burkina Faso.
Le istituzioni maliane sono molto lontane dal riprendere il controllo del territorio, nonostante l’appoggio internazionale. Il colpo di stato del 18 agosto 2020, in cui i militari hanno preso il controllo del Paese, non ha avuto effetti. L’attuale governo di transizione ha intavolato trattative di pace coinvolgendo milizie e leader etnici, ma finora ha ottenuto solo tregue precarie. Nel mentre i soldati continuano a morire, oppure, come denunciato recentemente da Human rights watch, compiono abusi ai danni della popolazione, minando così ulteriormente la fiducia e l’immagine dello Stato.
A pagare le conseguenze di tutto questo c’è la popolazione. Questa “guerra nella guerra” ha provocato già più di mille vittime solo nel 2020, incrementando il numero di sfollati interni che ormai sono 347mila e portando a 6 milioni i maliani bisognosi di assistenza umanitaria, secondo l’Onu.
Che aria si respira a Mopti
A Mopti e dintorni l’amarezza e il disincanto sono palpabili. Ai margini della città una famiglia dogon, supportata dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), ha deciso di accogliere 163 sfollati nel suo terreno.
Sotto un albero l’anziana Yassama osserva un termitaio mentre cerca di riposare sfiancata dall’aria incandescente: “Per noi dogon le termiti sono sacre. Secondo la leggenda durante una grave siccità che colpì il nostro popolo, un giovane cadde inavvertitamente su un termitaio e al suo interno trovò un tesoro: i semi di miglio e di altri cereali. Fu così che iniziammo a coltivarli diventando agricoltori. È stato il dio Amma a donarceli”.
Yassama conosce bene anche l’animismo dogon nonostante la fede musulmana. È fuggita dal suo villaggio, ad est, non lontano da Koro perché la minaccia jihadista non le permetteva più di sopravvivere. “Non potevamo più uscire dal villaggio per andare nei campi a coltivare e stavamo morendo di fame”, spiega Amagara, uno dei nipoti dell’anziana alloggiato con la sua famiglia in un campo profughi poco distante allestito all’interno di un vecchio stadio della Coppa d’Africa di calcio del 2002.
Stando a diverse analisi del Programma alimentare mondiale (Pam), realizzate con l’ausilio di immagini satellitari, è chiaro come il conflitto abbia interrotto la coltivazione e causato l’abbandono massivo dei villaggi. Uno stravolgimento che ha causato un livello di insicurezza alimentare senza precedenti in un’area già fragile. “Qui nel campo non siamo solo dogon. Ci sono anche molti peul in fuga… Non tutti loro sono in combutta con gli jihadisti, ma tutti sappiamo che dietro tutto questo ci sono la terra, i pascoli e l’acqua”.
Sotto alcuni grandi alberi di néré c’è un altro insediamento informale che ha accolto un migliaio di sfollati peul con ciò che resta delle loro mandrie di zebu. Abdoulaye è il rappresentante del gruppo ed è fuggito da Welingara non lontano da Ogossagou a seguito del massacro del 2019 in cui più di 150 peul sono stati uccisi dalle milizie di autodifesa dogon (Dan Na Ambassagou). “Ci sparavano alle spalle mentre fuggivamo uccidendo molti di noi, poi hanno bruciato il nostro villaggio e ci hanno portato via il bestiame. La cultura e la vita peul ruota attorno ai nostri animali e alla transumanza… vogliono cancellarci per prendersi anche gli ultimi pascoli rimasti”.
Nella stanza di un hotel di Sévaré, località satellite di Mopti dove sono situate le principali basi militari maliane e straniere, Youssouf Guindo, un cacciatore dozo della milizia Dan Na Ambassagou riesce a superare i checkpoint camuffandosi per venire a raccontare la sua storia. “Non sapevamo nemmeno cosa fosse la guerra, ma quando i tuoi familiari vengono uccisi e non c’è giustizia è difficile non reagire – afferma rabbioso –. Siamo della stessa famiglia dei peul, ma da qualche tempo sono divenuti nostri nemici. Vorremmo tanto che la guerra finisse e siamo stanchi, ma vogliono prendere la nostra terra e senza di essa la vita di un dogon non avrebbe più senso”. Youssuf si ricamuffa, prende le sue armi e si dilegua.
Tutte le testimonianze toccano un livello profondo del conflitto: la crisi climatica e la lotta per l’accesso alle risorse. Nel Sahel, la terra e l’acqua sono sempre state motivo di dispute, ma mai prima d’ora questa competizione aveva raggiunto livelli di tensione così alti. Secondo uno studio prodotto dall’Overview of humanitarian needs and requirements (Hnro) nel 2020, è la regione dove le temperature aumentano 1,5 volte più velocemente che nel resto del mondo generando crisi inedite. Dalla seconda metà del Ventesimo secolo le ripetute siccità e la desertificazione hanno ridotto la quantità di terra sfruttabile, mentre la pressione demografica è aumentata drammaticamente.
In Mali il tasso di povertà è al 42,7 per cento e la popolazione che vive per lo più di agricoltura, allevamento e pesca cresce a un tasso di oltre il 3 per cento l’anno. Nel Paese i fenomeni meteo estremi come siccità e alluvioni si stanno intensificando e la desertificazione minaccia il 98 per cento del territorio come riportato dall’Onu.
“L’aggravamento del conflitto esploso nel Mali centrale non è fortuito se si considera che proprio qui l’ecosistema del Delta interno del fiume Niger, una delle più importanti zone umide del mondo, è sotto pressione e si sta degradando da oltre 30 anni per via dell’uomo e dei cambiamenti climatici”, afferma Mori Diallo, esperto ambientale di Wetlands International a Mopti mentre fa un giro in barca per verificare di persona il livello del delta in città dove un gruppo di pescatori bozo lamentano la diminuzione drammatica del pesce. “Tradizionalmente pescatori, pastori e agricoltori praticano una ‘gestione alternata’: Se c’è l’erba, è per i pastori; se c’è l’acqua, per i Bozos; se c’è la terra, per i contadini. La società prospera in base al ciclo delle piene e la loro estensione, ma la pluviometria e il deserto hanno sballato tutto”. Il delta è un ecosistema ricchissimo di flora e fauna fondamentale per la sussistenza diretta di più di un milione di persone nella regione e indirettamente in tutto il Sahel. È così che la crisi climatica crea i presupposti per l’espansione dei conflitti e dell’estremismo come confermato recentemente anche dagli esperti del Sipri.
Appoggiato alla sua moto sul molo del porto di Mopti, Hamidou è assorto, faccia sul telefono. Ha appena ricevuto un video amatoriale da un amico con le immagini sfocate e macabre di in un altro villaggio bruciato ad est: “In poco tempo circolerà ovunque sui social e genererà altro odio. Chissà se tornerà mai la pace da queste parti”.
Scrivi un commento
Devi accedere, per commentare.