C’è una cosa che accomuna l’Unione europea di Ursula von der Leyen, gli Stato Uniti di Joe Biden, la Cina di Xi Jinping e grandi aziende del calibro di Facebook, PepsiCo, Apple e Google: tutti si sono impegnati a raggiungere la carbon neutrality. Un passo obbligato, se vogliamo andare nella direzione dell’Accordo di Parigi e scongiurare le conseguenze peggiori della crisi climatica. Ma cosa significa nello specifico carbon neutrality? Il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (Ipcc) ci dà una definizione: è lo stato in cui, a livello globale, le emissioni di CO2 di orgine antropica sono bilanciate dalla CO2 che viene rimossa dall’uomo in un periodo specifico. Ma è davvero possibile azzerare le emissioni? Cerchiamo di fare un po’ di ordine.
Dobbiamo ridurre le emissioni, e farlo in fretta
Nel dicembre 2015, firmando l’Accordo di Parigi, i governi di 190 paesi del mondo si sono impegnati a contenere l’aumento delle temperature globali ben al di sotto dei 2 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali, facendo tutto il possibile per restare entro gli 1,5 gradi. Per avere una chance di restare entro questo limite, però, abbiamo la possibilità di emettere in atmosfera soltanto una quantità limitata di CO2. Questa soglia si chiama carbon budget e in italiano potremmo tradurla come “bilancio di CO2”. Se la sforiamo, l’Accordo di Parigi è matematicamente fallito.
Al momento non siamo affatto sulla buona strada, ci ricorda il Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite (Unep). Nel 2020 la pandemia ha fatto crollare le emissioni di gas serra del 7 per cento rispetto all’anno precedente; guardandolo da vicino è un dato senza precedenti, ma nel lungo periodo sarà pressoché ininfluente. Quello che dovremmo fare è tagliare le emissioni globali del 7,6 per cento ogni anno, per l’intero decennio 2020-2030.
Con l’adesione all’Accordo di Parigi, ciascuno Stato ha promesso di dare il suo contributo a questa grande sfida. Gli impegni precisi sono stati messi nero su bianco nelle nationally determined contributions (ndc), documenti con cui ogni governo spiega quanto vuole ridurre le proprie emissioni e quali strategie intende mettere in campo per riuscirci.
Cosa significa azzerare le emissioni nette di gas serra
Insomma, siamo di fronte a un grande conto alla rovescia che rende assolutamente indispensabile marciare verso la carbon neutrality. Si raggiunge la carbon neutrality, secondo la definizione dell’Ipcc, quando i gas serra emessi dall’uomo sono pari a quelli rimossi dall’atmosfera in un certo periodo di tempo. Per questo si parla anche di net zero, o azzeramento delle emissioni nette.
“Ogni paese, città, istituto finanziario e azienda deve adottare piani per azzerare le emissioni entro il 2050. E iniziare a metterli in pratica adesso, anche fornendo chiari obiettivi nel breve termine”, ha ricordato il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres al summit sul clima del 12 dicembre 2020. “La tecnologia è dalla nostra parte. Solide analisi economiche sono nostre alleate. Le energie rinnovabili diventano sempre meno costose ogni giorno che passa. L’azione per il clima può essere il catalizzatore per milioni di nuovi posti di lavoro, una salute migliore e infrastrutture resilienti”.
Da un lato quindi ci sono le varie attività umane, ciascuna delle quali ha una carbon footprint, cioè una quantità di emissioni di gas serra che le è associata direttamente o indirettamente. I gas serra però sono tanti: oltre all’anidride carbonica o CO2 ci sono anche il metano, il protossido di azoto e i gas fluorurati, e ciascuno di essi ha una certa influenza sul clima che dipende dalla sua concentrazione, dalla sua permanenza in atmosfera e dalla sua “potenza” (Global warming potential, Gwp). Per conteggiare la carbon footprint vengono equiparati alla CO2 e misurati quindi in tonnellate di CO2 equivalente.
Sul versante opposto ci sono i due immensi serbatoi naturali di gas serra, cioè le foreste e gli oceani. Sui circa 40 miliardi di tonnellate di CO2 derivanti dalle attività umane nel 2020, ne hanno stoccato circa il 54 per cento.
La carbon neutrality in tre passaggi
Quando un soggetto dice di aver azzerato le emissioni nette, significa che ha seguito tre passaggi: misurazione, riduzione e compensazione.
1. Misurazione
Si comincia con la mappatura di tutte le emissioni di gas serra legate ai prodotti e processi. Per misurare la carbon footprint dei prodotti o dei servizi bisogna condurre uno studio – chiamato life cycle analysis (lca) – che prende in considerazione tutte le fasi della loro vita: si parte dall’estrazione delle materie prime, passando poi a fabbricazione, trasporto, distribuzione, uso, riuso, manutenzione e, infine, smaltimento. Per calcolarla su un’intera organizzazione il percorso è un po’ diverso perché le emissioni vanno suddivise in tre insiemi: nello Scope 1 rientrano le emissioni generate direttamente dagli impianti e dalle strutture di proprietà, come fabbriche e uffici; nello Scope 2 quelle legate alla fornitura di energia; nello Scope 3 quelle derivanti da tutte le attività non gestite direttamente dall’organizzazione, come i viaggi, lo smaltimento dei rifiuti, gli investimenti, la logistica e così via.
2. Riduzione
A questo punto si può passare alla seconda fase, la riduzione. Se per esempio un’azienda scopre che una quota consistente dell’impatto climatico di un prodotto deriva dal packaging, può mettersi all’opera per sostituirlo con un’alternativa più sostenibile. Se invece determinate materie prime vengono acquistate all’estero e trasportate su gomma, può andare alla ricerca di fornitori più vicini. Una scelta molto comune è quella di installare impianti per produrre energia da fonti rinnovabili, oppure acquistarla.
3. Compensazione
Resta una quota residua, impossibile da azzerare completamente: quella quota viene compensata, per esempio finanziando progetti di riforestazione. Quando il saldo arriva a zero, la carbon neutrality è stata raggiunta. Il protocollo di Kyoto ha gettato le basi per uno dei meccanismi di compensazione più efficaci e diffusi a livello internazionale, quello dei crediti di carbonio (carbon credit), una sorta di Borsa in cui la valuta sono le emissioni di CO2 equivalente. Il venditore è colui che riduce le proprie emissioni o assorbe gas serra e quindi vanta un credito; l’acquirente invece è colui che emette CO2 e, per appianare il suo debito, retribuisce un altro soggetto che la sequestra dall’atmosfera.
Il più grande mercato regolamentato della CO2 è il Sistema per lo scambio delle quote di emissione dell’Unione europea (Ets Ue). Istituito dal 2005, è obbligatorio per le grandi aziende inquinanti e le compagnie aeree che collegano i paesi dell’Unione. Finora queste realtà hanno sforbiciato le proprie emissioni di circa il 35 per cento tra il 2005 e il 2019, ma l’obiettivo è quello di arrivare al meno 43 per cento entro il 2030.
Il percorso di Europa e Italia verso la carbon neutrality al 2050
Il sistema Ets Ue è una delle più efficaci frecce che l’Unione ha al suo arco per rispettare la promessa di centrare la carbon neutrality entro il 2050, con l’obiettivo intermedio di ridurre le emissioni almeno del 55 per cento già entro il 2030. Anche l’Italia è coinvolta a pieno titolo in questo cammino. Ed è anche la principale beneficiaria di Next Generation Eu, l’imponente strumento di rilancio dell’economia da 750 miliardi di euro varato dalla Commissione. Nello specifico, al nostro paese spettano 191,5 miliardi di euro, tra prestiti e finanziamenti a fondo perduto, a cui si aggiungono i 30 miliardi di un fondo complementare. Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) presentato dal governo Draghi, due delle sei missioni sono direttamente funzionali all’obiettivo delle zero emissioni: “Rivoluzione verde e transizione ecologica” e “Infrastrutture per una mobilità sostenibile”, per cui vengono stanziati rispettivamente 68,6 e 31,4 miliardi.
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