L’8 giugno si celebra la Giornata mondiale degli oceani, un patrimonio fondamentale per l’umanità che richiede politiche sempre più sostenibili. A spiegarlo è Piera Tortora, ricercatrice dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), evidenziando l’esistenza di una vera e propria economia degli oceani, in costante crescita soprattutto nei paesi a medio e basso reddito: un’opportunità da un lato, ma anche un rischio alla luce degli impatti prodotti dalle attività dell’uomo sugli ecosistemi marini.

Nata a Roma e residente da anni a Parigi, Piera Tortora coordina il progetto Sustainable ocean for all della stessa Ocse, istituita nel 1960, che promuove a livello globale politiche tese al miglioramento del benessere economico e sociale dei cittadini.

Piera Tortora è nata a Roma e lavora da anni a Parigi © LifeGate

Prima della crisi legata alla pandemia, l’Ocse stimava che la cosiddetta economia degli oceani, ovvero l’attività economica mondiale che utilizza risorse marine e costiere, sarebbe raddoppiata fra il 2010 e il 2030. Quali sono i motivi di questa crescita e quali sono le sue implicazioni globali? 
Prima della crisi globale generata dal coronavirus, all’Ocse stimavamo che l’economia degli oceani sarebbe passata da 1.500 miliardi di dollari americani nel 2010 a 3mila miliardi nel 2030. Ciò a causa del fatto che nell’oceano non esistono solo attività tradizionali come la pesca, ma si è sviluppata una serie di nuove realtà economiche che stanno accelerando velocemente: dall’energia eolica offshore all’acquacoltura, dalla maricoltura alle biotecnologie marine, e presto all’estrazione di minerali dai fondali più profondi. L’innovazione tecnologica, in vari campi, sta rendendo possibili nell’oceano attività economiche che prima non erano realizzabili. E così si guarda sempre più all’oceano come ad una risorsa economica da sfruttare per soddisfare i bisogni crescenti di energia, cibo e risorse di una popolazione mondiale in espansione.

Perché l’economia oceanica globale accelera in maniera più vistosa in paesi a reddito medio/basso e in via di sviluppo, in particolar modo nel sud-est asiatico? 
Molti paesi a basso e medio reddito dipendono già largamente dal mare come fonte di reddito e impiego, per via di settori economici importanti come il turismo e la pesca. In un recente rapporto dell’Ocse, in cui abbiamo raccolto e analizzato i dati relativi a sei industrie principali dell’economia dell’oceano, stimiamo che queste rappresentino in media meno del 2 per cento del Prodotto interno lordo nei paesi ad alto reddito, ma oltre l’11 per cento del Pil in quelli a reddito medio/basso. In alcuni stati piccoli e insulari – i cosiddetti “small island developing states” – il turismo marittimo può arrivare a rappresentare oltre il 20 per cento del Pil nell’ambito di economie piccole e non diversificate. Inoltre, molti di questi paesi posseggono una parte sostanziosa delle risorse marine rimaste ancora inutilizzate, che i mercati globali cercheranno di accaparrarsi. La regione in cui l’accelerazione è stata maggiore è stata il sud-est asiatico, in gran parte per via della Cina e della sua aumentata produzione navale.

Maldive
Le popolazioni delle isole vivono in simbiosi con l’oceano © Hoodh Ahmed/Unsplash

In che modo gli oceani svolgono un ruolo centrale anche nella mitigazione del clima?
L’oceano produce il 50 per cento dell’ossigeno che respiriamo e assorbe più del 90 per cento del calore causato dai gas serra prodotti dagli umani, di conseguenza svolge una funzione fondamentale a livello di regolazione del clima. Inoltre fornisce l’habitat vitale a specie marine da cui dipendiamo direttamente e indirettamente per la catena alimentare, e a specie vegetali che ci proteggono contro agenti inquinanti e fenomeni quali le inondazioni.

Quali sono le conseguenze dell’innalzamento delle temperature? 
L’innalzamento delle temperature nell’oceano sta provocando danni ingenti agli habitat marini e alle specie animali che li abitano. Insieme all’inquinamento, le temperature più alte stanno portando ad un numero crescente di “zone morte”, aree in cui il livello di ossigeno presente è così basso da non permettere la sopravvivenza delle specie. Anche se riuscissimo a mantenere l’aumento della temperatura globale entro gli 1,5 gradi, il 90 per cento dei coralli rischia di andare perduto. Senza dimenticare che l’aumento delle temperature si traduce anche in un numero più elevato di eventi climatici estremi, come uragani e tifoni. L’accelerazione di questi cambiamenti è di un’entità tale che non si sa per quanto ancora l’oceano potrà continuare a svolgere le funzioni che permettono la vita su questo Pianeta.

Quanto impattano le attività dell’uomo sui paesi in via di sviluppo?
Gli impatti antropogenici hanno una scala globale, riguardano tutti. I paesi in via di sviluppo, che sono relativamente più dipendenti dalle industrie legate all’oceano, potrebbero trarre dei vantaggi dall’espansione globale delle industrie stesse. Allo stesso tempo, però, sono più vulnerabili agli impatti che le crescenti pressioni antropogeniche producono sugli ecosistemi marini alla base di tali attività economiche, nonché alle conseguenze dell’intensificarsi delle attività stesse in mare, se queste non saranno profondamente trasformate per integrare aspetti di sostenibilità; è dunque fondamentale che siano svolte nel rispetto dell’ambiente e legate a modelli sostenibili, anche a livello sociale. Nei paesi in via di sviluppo è particolarmente importante che le vaste risorse marine ancora inutilizzate siano conservate e utilizzate in maniera sostenibile, e che queste nazioni siano in grado di valutare gli effettivi costi e benefici dello sfruttamento di tali risorse.

La barriera corallina di Beveridge Reef,nelle acque di Niue nell’Oceano Pacifico centrale. © PNUD/Vlad Sokhin

Questo discorso vale anche per i paesi più ricchi?
Senza dubbio. Ad esempio nel Pacifico, dove sono stati identificati importanti giacimenti di cobalto ritenuti funzionali alla transizione verso il trasporto elettrico, l’estrazione di questo e altri metalli potrebbe creare un disastro ecologico che investirebbe non solo quei paesi, ma l’intero ecosistema marino globale. Stiamo parlando di un ecosistema altamente interconnesso e comunicante, dunque con effetti globali potenzialmente catastrofici e irreversibili.

In un rapporto, l’Ocse evidenzia che una transizione a una gestione sostenibile delle risorse del mare e dell’oceano è assolutamente urgente. Quali direttrici si dovranno seguire? 
Una transizione verso una gestione sostenibile delle risorse del mare e dell’oceano richiede un cambiamento sistemico, a partire dalle industrie che operano in mare e ne sfruttano le risorse; e proseguendo con altre attività produttive, penso a quella della plastica, che hanno comunque un impatto sull’oceano. È dunque necessario l’impiego mirato di politiche intersettoriali coerenti, capaci di individuare e minimizzare conflitti negli usi delle risorse. Ed è fondamentale una trasformazione all’interno dei mercati finanziari e di credito: penso a nuove regolamentazioni e politiche per aumentare i finanziamenti delle attività sostenibili nell’oceano e per favorire la creazione di mercati, business model e prodotti effettivamente sostenibili a livello economico, ambientale e sociale. Ma anche per ridurre e riorientare i capitali attualmente investiti in attività economiche distruttive che, spesso, hanno nei paesi in via di sviluppo i loro impatti più evidenti. A tal fine, l’Ocse sta collaborando con altre istituzioni per l’adozione delle prime linee guida per investire in maniera sostenibile nell’economia dell’oceano, che sono state pubblicate il 2 marzo scorso.

filippine balena plastica
Le Filippine rappresentano una delle nazioni che maggiormente contribuisce alla dispersione nell’ambiente, ed in particolare nell’oceano, di rifiuti di plastica © Jes Aznar/Getty Images

Quanto è importante il ruolo della cooperazione internazionale?  
La cooperazione internazionale allo sviluppo ha un ruolo fondamentale. Innanzitutto per facilitare l’accesso ai paesi a basso e medio reddito alla scienza, alle tecnologie, agli strumenti di policy e alla finanza necessari per mettere in atto un trasformazione verso un’economia dell’oceano sostenibile. In secondo luogo per garantire a tutti i paesi, anche i più poveri, accesso ai potenziali benefici. Malgrado la comunità internazionale abbia manifestato un interesse crescente verso questa tematica, all’Ocse stimiamo che attualmente meno dell’1 per cento degli aiuti pubblici per lo sviluppo venga speso per finanziare una transizione a un’economia degli oceani sostenibile nei Paesi a basso e medio reddito. Fra il 2013 ed il 2018, ciò ammontava a circa 3 miliardi di dollari americani in media all’anno.

È possibile invertire la rotta?
Non solo è possibile ma è anche necessario. Bisogna dedicare maggiori aiuti internazionali a quest’area e fornire incentivi alla finanza privata affinché riorienti gli investimenti verso attività sostenibili. Va inoltre promossa una coerenza globale delle politiche, perché ogni stato ha a sua disposizione un ventaglio di strategie – come quelle relative alla pesca, quelle sugli investimenti e i mercati finanziari, sul turismo e persino sulla transizione energetica – che spesso incidono sulla sostenibilità nei paesi in via di sviluppo. Bisogna identificare e correggere contraddizioni e incoerenze che queste politiche possono avere con gli obiettivi di sviluppo sostenibile globale. In ultima istanza, la cooperazione alla sviluppo può svolgere un ruolo fondamentale per sostenere una ripresa dalla crisi economica generata dal coronavirus che vada nella giusta direzione. A tal fine, all’Ocse stiamo lavorando alla creazione di “Blue recovery hubs”, per sviluppare strategie di ripresa capaci di aumentare la sostenibilità dei settori economici legati all’oceano e favorire la diversificazione economica attraverso nuove opportunità sostenibili.