L’incandescente situazione generata dall’eterno conflitto tra Israele e i gruppi terroristici armati raccontata attraverso la quotidianità di una famiglia palestinese. La sofferenza di un intero popolo riflesso negli occhi di un padre e di sua figlia. Sono le immagini catturate dal cortometraggio The present, accolto con grande entusiasmo a livello internazionale, premiato con un Bafta, candidato all’Oscar e distribuito da Netflix. Un film che è insieme la storia di un regalo e la Storia del presente, come il titolo magnificamente riassume nel suo doppio significato. A firmarlo, con un debutto folgorante, è la regista e attivista anglo-palestinese Farah Nabulsi, che in 24 minuti confeziona una potente opera cinematografica e, insieme, un manifesto di denuncia sullo stato di segregazione imposta al popolo palestinese dall’occupazione militarizzata israeliana.
A rendere ancora più necessaria e interessante oggi la visione di The present è proprio la cronaca di queste settimane, che ha riacceso i riflettori sull’incendiaria situazione in Terra Santa, dove la coraggiosa resistenza di un gruppo di famiglie palestinesi nel piccolo quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme, ha innescato una serie di reazioni a catena che hanno portato agli scontri armati.
The present è una storia semplice che racconta una realtà crudele. Un film sulla dignità e sul diritti umani basilari e sulla libertà di movimento.
The present, la trama del cortometraggio
The present fotografa la drammatica quotidianità di una famiglia come tante, portandoci nel cuore di una terra martoriata da secoli di ostilità e inimicizia tra i popoli. Una storia “piccola”, ma potentissima, di una giornata qualunque, spesa da Yusef (l’attore palestinese Saleh Bakri) e dalla sua bambina Yasmine (la talentuosa Maryam Kanj) nel tentativo di comprare un regalo di anniversario alla moglie (Mariam Basha). Ambientato nel quartiere del West Bank in Cisgiordania, il film racconta una storia di finzione basata su fatti reali e sulla vita di persone vicine alla regista. Yusef, come moltissimi palestinesi, per recarsi al lavoro, deve affrontare ogni giorno lunghissime code ai posti di blocco imposti dall’occupazione israeliana. E quando decide di andare a fare shopping, a comprare delle medicine o qualunque altra cosa deve mettere in conto intere giornate, passate in balia dei controlli e segnate da umilianti privazioni dei diritti basilari e della libertà di movimento.
Un racconto commovente con cui Farah Nabulsi sceglie di mettere a fuoco l’umanità dei personaggi, per arrivare dritto al cuore della loro drammatica situazione. Non ci sono proclami, simboli o messaggi politici a spiegare ciò che accade. A parlare sono solo i volti e le azioni dei protagonisti, magnificamente interpretati dal cast e capaci di aprire uno squarcio sulla realtà e sul presente della Palestina. Un film che diventa ancora più provocatorio e disturbante in questi giorni segnati da una nuova escalation di ostilità (ora fortunatamente interrotte da un cessate il fuoco).
Da palestinese mi sono sempre sentita in dovere di raccontare le storie di queste persone chiamate ad affrontare procedure estenuanti e umilianti ogni giorno della loro vita.
Una storia di finzione basata su una crudele realtà
In alcune scene del film la finzione si mescola letteralmente alla realtà, trasformando The present anche in un docufilm. Sono quelle del passaggio di Yusef attraverso il claustrofobico corridoio del checkpoint 300 di Betlemme, dove un fiume di persone ogni giorno si fa strada lentamente per passare e raggiungere il posto di lavoro, mettendosi in fila dalle tre del mattino. Un rituale quotidiano che nelle ore di punta può richiedere ore per chi deve oltrepassare i confini imposti dal regime militare israeliano. Immagini forti e disturbanti, che diventano metafora dell’asfissiante condizione di prigionia imposta al popolo palestinese.
Alla quieta rassegnazione di questo fiume di persone, fa eco la rabbia malcelata che ribolle nelle viscere del protagonista, umiliato e sbeffeggiato mentre, in un’altra scena chiave del film, tenta di oltrepassare un check point con sua figlia. Sono le due facce del sentimento palestinese, schiacciato tra la necessaria accettazione della realtà e l’insopprimibile desiderio di libertà.
“Ero già stata personalmente in questo posto ed è una delle ragioni per cui ho deciso di fare questo film. Per mostrare e denunciare la condizione imposta a queste persone trattate come animali da batteria”, ha spiegato la regista durante un’intervista all’Asian world film festival
Immerso e stipato in questa fiumana reale di persone, ripresa dal vivo dalla regista, si muove il protagonista, unico elemento di finzione della scena. Un’esperienza dura per l’attore, che Farah ha voluto ringraziare pubblicamente ammettendo: “Saleh mi ha permesso di girare la scena più gratificante del film”. Questo passaggio risulta infatti fondamentale per poter capire il resto della storia, scoprendo chi è quest’uomo e qual è la sua realtà quotidiana, e così quella di migliaia di palestinesi.
Quando arrivi per la prima volta nei territori, pensi che lo scopo del checkpoint sia catturare i terroristi. Ma non è questo lo scopo dei checkpoint. Lo scopo è creare arbitrarietà che instilli una vera paura nei palestinesi.
Pur cercando di restare fedele alla realtà, la regista ammette di aver ceduto a un finale più roseo di quanto non accada solitamente. “Quello che faccio nei miei film non è disumanizzare qualcuno. Non ho dubbi che anche tra i soldati di occupazione israeliana ci siano coloro che non sono felici di fare quello che fanno. Ma mi dispiace dire che la più grande finzione che ho voluto inserire nel film è proprio nelle scene finali in cui un soldato discute con un altro, per cercare di risolvere la situazione. Questo in realtà difficilmente accade. Così come raramente quelle situazioni si concludono come nel finale che ho scelto per il film, purtroppo”.
L’impegno per la causa palestinese di Farah Nabulsi
The present ha rappresentato un debutto davvero eccezionale per Farah Nabulsi che si definisce “la figlia di palestinesi che hanno avuto la fortuna di costruirsi una casa nella Gran Bretagna degli anni ’70, a differenza dei milioni che continuano a rimanere apolidi nei campi profughi”.
Pur essendo cresciuta lontano dalla sua terra d’origine, la regista ha sempre seguito le vicende palestinesi e deciso di farsene portavoce come attivista. Dopo una carriera come agente di borsa e imprenditrice, dal 2015 Nabulsi ha deciso di dedicarsi al cinema, scelto come tramite ideale per portare all’attenzione del grande pubblico le tematiche a lei care. Parallelamente, Farah Nabulsi utilizza il suo sito, così come le sue pagine social, per raccogliere e diffondere notizie, appelli, cortometraggi e testimonianze che cercano di far luce sulla reale situazione in Israele.
Lei stessa aveva già realizzato opere audiovisive, come lo sperimentale Nightmare of Gaza, in cui denunciava la difficilissima situazione degli abitanti della striscia di Gaza, descrivendola come la più grande prigione a cielo aperto del mondo; e con Oceans of injustice (da lei scritta e prodotta) in cui racconta, attraverso l’immagine metaforica di un gruppo di persone che annaspano per restare a galla, le tante ingiustizie con cui il popolo palestinese si trova a convivere nell’indifferenza del mondo.
L’arte come forma di resistenza
A condividere l’attivismo della regista è anche il protagonista del corto Saleh Bakri, attore palestinese noto anche oltre i confini d’Israele (in Italia ha interpretato il film Salvo, vincitore del premio della critica al Festival di Cannes 2013). Per Saleh interpretare Yusef in The present non è stata solo una scelta artistica, ma la volontà di alzare un grido per il suo popolo e di mostrare a tutti la realtà. “I check point separano palestinesi da palestinesi”, ha raccontato all’Asian world film festival. “Io oggi vivo ad Haifa, che fa parte d’Israele, e non sono mai stato a Gaza, che è separata da un muro ed è come una prigione. Se io faccio uno spettacolo qui ad Haifa le persone del West Bank non possono venire a vederlo. Quello che sto facendo è cercare di urlarlo al mondo, così che le persone che sentono possano essere ispirate dal mio lavoro e mettere in atto un cambiamento”.
Credo che l’arte sia il modo migliore per resistere. Una resistenza non violenta in cui credo con tutta l’anima e tutto il corpo.
Figlio d’arte, Bakri segue le orme del padre, l’attore Mohammad Bakri, che dal 2002 subisce le conseguenze legali per il documentario Jenin Jenin, girato illegalmente in un campo-profughi palestinese al termine di un’azione militare israeliana. “Questa storia è la mia storia e nessuno potrà chiuderci la bocca o censurarci, qualunque cosa facciano”, ha spiegato Saleh. È una cosa che ho imparato da mio padre, che cambiava le sceneggiature se non era d’accordo. È per questo che io, i miei fratelli, i miei amici e Farah siamo qui. Perchè questo fuoco negli animi dei palestinesi e di tutte le persone oppresse non morirà mai”.
Parole che Bakri pronuncia da testimone diretto delle contraddizioni e delle ingiustizie denunciate: “Una volta una poliziotta israeliana mi puntò una pistola addosso solo perché stavo parlando in arabo durante un controllo. Pensava la stessi insultando. Al tempo stesso degli israeliani mi avevano riconosciuto e cercavano di difendermi”. A proposito dell’accoglienza del film in Israele, a fronte del successo internazionale Bakri racconta: “In Israele hanno cercato di sminuire il contenuto del film, parlandone in modo superficiale, dicendo che racconta la realtà come bianca o nera. Stanno facendo come con mio padre. Ma il fatto che perseguitino un artista fa già di loro dei perdenti”.
Un film per rompere il silenzio
La storia di The Present è stata ispirata dall’incontro della regista con Amed, un uomo che vive a Hebron, cittadina della Cisgiordania profondamente segnata dallo scontro israelo-palestinese e trasformata in una città fantasma dall’occupazione militare. Qui, dove una volta pulsava la vita ora ci sono cancelli e muri con filo spinato, torri di controllo, cecchini e militari di guardia. E qui Amed e la sua famiglia si sono ritrovati a vivere letteralmente imprigionati da un posto di blocco e un check point, situati a pochi metri dalla loro casa, costringendoli a continui e umilianti controlli per poter fare qualunque spostamento.
Volevo raccontare queste vicende umane che sono grossolanamente sottointerpretate e fraintese.
Qui, come nelle altre zone occupate militarmente da Israele, gli attivisti denunciano la condizione di apartheid e le continue violazioni dei diritti umani, in atto in un territorio dove per i cittadini israeliani e palestinesi esistono, di fatto, due pesi e due misure. Per i primi è applicata la legge civile, mentre per i secondi vige la legge militare, che sfocia in soprusi e deprivazioni dei diritti fondamentali. Il film cerca di rompere il silenzio su questa situazione, così come hanno iniziato a fare anche alcuni ex soldati del tsahal, le Forze di difesa israeliane, con l’organizzazione Breaking the silence. In forma anonima o mettendoci la faccia i militari hanno deciso di rivelare al mondo i soprusi compiuti durante il servizio militare ai danni di cittadini palestinesi fermati per controlli, perquisizioni, a volte sequestrati per ore, picchiati e addirittura uccisi.
Una deriva inaccettabile, celata dietro al compito ufficiale di “difendere l’esistenza, l’integrità territoriale e la sovranità dello Stato d’Israele; di scoraggiare tutti i nemici e frenare tutte le forme di terrorismo che minacciano la vita quotidiana”. Ma il desiderio di arrivare a un compromesso di pace trova echi anche tra gli ebrei, ha spiegato Nabulsi: “Ci sono delle voci di solidarietà che si stanno sollevando anche da parte degli israeliani, ma sono una piccola minoranza e crescono soprattutto fuori da Israele, come per esempio il gruppo americano Jewish voice for peace”
Non è facile trovare il bandolo della matassa nel groviglio storico e politico, fondato sull’incapacità di arrivare a un mutuo riconoscimento di sovranità e indipendenza dello Stato di Israele e dello Stato di Palestina. Un’empasse che da secoli lacera questa terra, segnata da una reciproca e insanabile diffidenza, dove culture e religioni stentano a trovare una via di incontro e pacifica convivenza. Un’ostilità che, partendo dall’alto, si riversa sugli innocenti, condannandoli a vivere nell’incertezza e nella paura. Quei sentimenti che il film The present riesce così bene a descriver attraverso gli occhi della bambina protagonista, impotente e smarrita di fronte alle ingiustizie che vede accadere. “Come lei tanti bambini palestinesi sono costretti ogni giorno a vedere le proprie madri e i propri padri-supereroi affrontare i soprusi dei militari israeliani”, ha raccontato la regista alla Cnn.
Le voci dello star system
A rompere il silenzio sulla situazione la della Palestina sono anche organizzazioni internazionali e celebrità dello star system, che hanno iniziato a alzare lo sguardo sul tema, anche dopo le rivolte di Sheikh Jarrah. La politica statunitense Cori Bush, membro della Camera dei rappresentanti per lo stato del Missouri ha dichiarato: “La lotta per le vite dei neri e la lotta per la liberazione palestinese sono interconnesse. Ci opponiamo ai finanziamenti di denaro statunitense per la polizia militarizzata, l’occupazione e i sistemi di oppressione violenta. Siamo anti-apartheid”.
A esporsi anche esprimendo solidarietà ai palestinesi sono stati attori come Viola Davis, Mark Ruffalo, Natalie Portman e Susan Sarandon che segue da vicino la situazione e attraverso la sua pagina twitter condivide notizie e denunce: “Ciò che sta accadendo in Palestina è il colonialismo dei coloni, l’occupazione militare, il furto di terre e la pulizia etnica”. A Milano l’attore e scrittore di origine ebraica Moni Ovadia ha partecipato al presidio organizzato all’Arco della Pace dalla comunità palestinese lombarda dichiarando a Corriere Tv: “Io per formazione e per convinzione sto sempre dalla parte degli oppressi. In questo caso gli oppressi sono il popolo palestinese mentre l’oppressore è il governo Israeliano”. Prese di posizione che contribuiscono a sensibilizzare l’opinione pubblica e a tenere acceso il dibattito su temi e sofferenze che non possono più essere ignorati.
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