Siamo nel nord est della Namibia, in un villaggio remoto in cui le giornate sono scandite dal cinguettio degli uccelli e dal fruscio del vento sulle foglie. Dal mese di gennaio di quest’anno, improvvisamente, la quiete è stata infranta dalle massicce trivellazioni in uno dei tre pozzi petroliferi di prova gestiti da ReconAfrica. Questa società del comparto oil&gas con sede a Vancouver, in Canada, si è aggiudicata una concessione di 25 anni per trivellare su un’area di 34mila chilometri quadrati tra la Namibia e il Botswana, nel bacino del fiume Okavango. Se davvero la produzione raggiungerà i 120 miliardi di barili di petrolio, come prospettato dall’azienda, sarà uno dei giacimenti più grandi trovati nel mondo negli ultimi anni. A raccontare questa storia è un articolo della Yale school of environment.
Gli abitanti sono stati tenuti all’oscuro
Queste operazioni estrattive destano preoccupazione da più fronti. Nelle regioni del Kavango orientale e occidentale vivono infatti circa 200mila persone – inclusi gli indigeni San – che si sostentano grazie all’agricoltura, alla pesca e al turismo. Persone che non sono state consultate; anzi, hanno appreso la notizia dalla radio e dai social media. Ora temono di essere costrette a lasciare le loro case e si domandano se, almeno, potranno approfittare di nuove opportunità di lavoro. Il Kavango è la regione più povera della Namibia, con un tasso di disoccupazione che sfiora il 50 per cento.
A rischio il delta dell’Okavango, patrimonio Unesco
I pozzi petroliferi inoltre porteranno con sé una rete di infrastrutture, come strade e oleodotti, che frammenteranno l’habitat e lo renderanno quindi più fragile. Tutto questo nel bel mezzo del bacino del fiume Okavango, un delicato ecosistema semiarido (fa parte infatti del deserto del Kalahari) in cui vivono numerose specie a rischio di estinzione, tra cui gli elefanti di savana.
Nel 2019 ReconAfrica aveva commissionato una valutazione di impatto ambientale che però era stata pesantemente criticata perché ritenuta troppo superficiale in merito alle conseguenze sulla flora e sulla fauna. Si teme soprattutto per le vie d’acqua, visto che uno dei primi pozzi di prova è già stato scavato in prossimità di un affluente dell’Okavango. Non è infatti escluso che si impieghi anche la controversa tecnica della fratturazione idraulica delle rocce (fracking) che fa ampio uso di sostanze chimiche tossiche. L’inquinamento metterebbe a repentaglio addirittura l’equilibrio del delta dell’Okavango, in Botswana. Un paradiso naturale preziosissimo, riconosciuto dall’Unesco come il millesimo Patrimonio dell’umanità.
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