Compie dieci anni la Convenzione di Istanbul o, più precisamente, Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica. Uno strumento prezioso che diviene giuridicamente vincolante al momento della ratifica; cosa che l’Italia ha fatto, con la legge 77/2013. Sulla carta, dunque, il nostro paese previene la violenza, protegge le vittime e persegue i trasgressori. Ma come stanno le cose nella realtà?
La condanna della Cedu contro l’Italia
È giugno 2012 ed Elisaveta Talpis, che vive in provincia di Udine, chiama per la prima volta i carabinieri a seguito dell’ennesimo episodio di percosse da parte del coniuge con problemi di alcolismo. Dopo svariati mesi di aggressioni, richieste di aiuto e denunce, il 26 novembre 2013 l’uomo cerca di accoltellarla e uccide il figlio di 19 anni che aveva cercato di farle da scudo.
Da questo drammatico episodio di cronaca si apre una vicenda che coinvolge le istituzioni italiane nel loro insieme. Perché Talpis decide di rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), lamentando – in sostanza – di essere stata lasciata da sola di fronte all’escalation di violenze finita in tragedia. Il 2 marzo 2017 arriva la condanna. L’Italia ha infranto ben tre articoli della Convenzione europea sui diritti umani: l’articolo 2 sul diritto alla vita, il 3 sul divieto di trattamenti inumani e degradanti e il 14 sul divieto di discriminazione.
La Corte ricorda al governo italiano di aver preso impegni ben precisi con la firma – e poi con la ratifica – della Convenzione di Istanbul, e gli raccomanda di rispettarli in tanti modi: emanando nuove leggi, colmando le lacune normative, istituendo una struttura ad hoc, ma anche lavorando sull’educazione e sull’empowerment femminile.
Le istituzioni europee tengono d’occhio l’Italia
Prende così il via il programma di esecuzione previsto dall’articolo 46 Cedu. In pratica, lo Stato condannato viene tenuto sotto controllo dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa fino al momento in cui non dimostra di aver applicato tutto ciò che gli è stato richiesto.
L’Italia presenta un piano d’azione che viene però ritenuto lacunoso prima nel 2018 e poi nel 2020. Uno dei grossi punti deboli sta nella mancanza di dati: dati sugli ordini di protezione, sul numero di denunce ricevute, sui tempi medi di risposta delle autorità, sul numero di ordini di protezione attuati. Il Comitato sottolinea anche – con una certa preoccupazione – che “gli stereotipi di genere continuano a essere presenti nella società italiana” e dà al governo un’altra scadenza, il 31 marzo 2021, per dare una risposta alle svariate questioni rimaste aperte.
Una posizione sottoscritta da Di.Re, Donne in rete contro la violenza. “La risposta inefficace e ritardata delle autorità italiane alle denunce delle donne connessa alla discriminazione nella protezione contro la violenza domestica è quanto denunciamo da anni”, commenta la presidente Antonella Veltri.
L’Italia e la Convenzione di Istanbul, cosa dice il rapporto Grevio
Su quanto il nostro paese si sia dimostrato pronto a mettere in pratica i princìpi della Convenzione di Istanbul sono state scritte pagine e pagine. 92, per la precisione, quelle del rapporto stilato da Grevio, un gruppo di 15 esperte ed esperti indipendenti e imparziali. Un lavoro imponente, frutto di un monitoraggio durato due anni e anche della disamina dei rapporti ombra scritti parallelamente da alcune associazioni, tra cui la stessa Di.Re.
Promosse le leggi contro stalking, femminicidio e violenza
Le esperte riservano parole positive per una serie di riforme legislative varate negli ultimi anni. La legge del 2009 sullo stalking viene ritenuta “molto innovativa” soprattutto perché ha aumentato la consapevolezza su quanto sia pericoloso questo comportamento criminale e su quanto le vittime meritino di essere protette. Bene anche la legge 119/2013 sul femminicidio, “frutto di anni di impegno da parte delle organizzazioni di donne”, ma anche il d.lgs. n. 80/2015 che offre alle donne vittime di violenza un congedo speciale retribuito e la legge n. 4/2018 che tutela gli orfani di una vittima di violenza domestica. Due misure, queste ultime, che il Grevio indica come esempi da seguire da livello internazionale. Tra le novità degne di nota c’è anche il Codice rosso che, tra le altre cose, dà una sorta di corsia preferenziale ai casi di violenza domestica o di genere e – dopo le gravissime storie di Tiziana Cantore e Lucia Annibali – introduce due reati, il revenge porn e lo sfregio permanente al viso.
Cos’è la vittimizzazione secondaria e perché preoccupa
Casi come quello di Elisaveta Talpis, però, arrivano a conseguenze così estreme non perché manchino le leggi volte a tutelare le vittime, ma perché le minacce, le intimidazioni e le violenze proseguono per mesi. Il Consiglio superiore della magistratura nel 2018 ha fatto sapere che meno del 20 per cento delle procure e l’8 per cento delle cancellerie ha adottato criteri di valutazione del rischio per consentire alle forze dell’ordine, alle autorità giudiziarie e ai tribunali di prevenire l’aumento della violenza e delle recidive.
Il rapporto Grevio parla a più riprese di vittimizzazione secondaria, cioè di tutti quei casi in cui la vittima viene messa in discussione fino a essere indotta ad auto-colpevolizzarsi. Cosa che può succedere prima o durante il procedimento. “Può capitare che la persona offesa si rivolga alle forze dell’ordine per denunciare immediatamente la violenza subìta ma, dopo qualche giorno, preferisca ritrattare perché non è ancora pronta. Questo è normalissimo nel circolo della violenza ma non è noto a chi deve fare queste indagini. Ne consegue che la donna venga ritenuta non credibile”, spiega Elena Biaggioni, avvocata penalista, tra le ideatrici della campagna Violenza sulle donne. In che Stato siamo? di Di.Re. Come si possono evitare casi come questo? “Formazione, formazione, formazione. Le leggi ci sono, lo dice anche il Grevio, ma manca la formazione. Dobbiamo ripensare al nostro immaginario: la vittima non ha necessariamente l’occhio nero, spesso è una persona normalissima”.
Poi c’è la vittimizzazione secondaria che subentra durante il procedimento. “Faccio un esempio banalissimo. La persona offesa viene chiamata in aula alle 9 e deve testimoniare a mezzogiorno. Per queste tre ore sta seduta davanti all’imputato, accompagnato dai familiari e dalle persone che lo sostengono. È una sofferenza inutile che potrebbe esserle evitata se solo venissero applicate le disposizioni – molto chiare – della direttiva vittime. Si tratta di una direttiva europea in vigore dal 2015 che è in sinergia con le disposizioni della Convenzione di Istanbul”, continua l’avvocata Biaggioni.
Centri antiviolenza fondamentali, ma a macchia di leopardo
La stessa Convenzione di Istanbul mette bene in chiaro quanto siano preziosi i servizi di protezione e sostegno alle vittime gestiti dalle ong di donne. Le attività dei centri antiviolenza vanno dalla gestione delle case rifugio ai gruppi di sostegno, dalla consulenza legale e psicologica all’orientamento lavorativo. In Italia, però, “i diversi approcci adottati nell’applicazione delle normative abbiano portato a delle condizioni diverse di accesso al finanziamento statale e a delle disparità nella qualità di erogazione del servizio”, si legge nel rapporto Grevio.
Il fatto che ogni regione segua i propri meccanismi di finanziamento “ha un effetto negativo sulla stabilità finanziaria delle ong dedicate alle donne e sulla continuità di erogazione del servizio” e si traduce anche in una “irregolare distribuzione dei servizi all’interno del paese” e in una “limitata capacità da parte delle strutture esistenti di rispondere alle esigenze di tutte le vittime di qualsiasi forma di violenza”.
La violenza di genere è una questione culturale
Le leggi, inoltre, spesso arrivano troppo tardi. Cioè quando il reato si è già verificato, con il suo strascico di dolore per le vittime. È per questo che le esperte del Grevio si sono immerse nella cultura italiana fino a dirsi “molto preoccupate dai discorsi d’odio sessisti, dalla misoginia e dalla tolleranza verso la violenza nei confronti delle donne che si manifestano nel dibattito pubblico, sui mezzi di comunicazione tradizionali o sui social media”. Puntualmente, le donne in prima linea contro la disuguaglianza e la violenza sono bersaglio di “attacchi organizzati per farle tacere”.
Ecco perché il comitato “esorta vivamente le autorità italiane ad attuare misure propositive e durature per promuovere cambiamenti nei modelli sociali e culturali di comportamento sessista, specialmente di uomini e ragazzi, basati sull’idea di inferiorità delle donne”.
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