Nel 2020 la deforestazione dell’Amazzonia in Brasile ha raggiunto il suo livello più alto dal 2008. Oltre 11mila chilometri quadrati di alberi sono scomparsi, un vero e proprio saccheggio a un deposito di CO2 fondamentale per il futuro del paese e del Pianeta. È indubbio che la presidenza di Jair Bolsonaro abbia avuto un ruolo chiave nell’accelerare questo processo, ma in realtà i problemi nascono già da due mandati prima. Da quando cioè nel 2012 la presidente Dilma Rousseff ha ammorbidito la legislazione sull’abbattimento massivo di alberi. Oggi si vive l’onda lunga di quelle scelte, a cui si sono aggiunti incendi. Il risultato è che la deforestazione sta divorando sempre più anche la cosiddetta foresta primaria, quella cioè a più alta biodiversità e dunque indispensabile per la sostenibilità globale.
Bolsonaro è solo la punta dell’iceberg
Quando nel novembre scorso l’Istituto nazionale per le ricerche spaziali del Brasile ha annunciato un aumento della deforestazione amazzonica del 9,5 per cento rispetto all’anno prima, la sensazione non è stata di sorpresa. L’abbattimento di alberi prosegue imperterrito da decenni, ma se all’inizio degli anni Duemila si erano raggiunti picchi prima impensabili come gli oltre 30mila chilometri quadrati di foresta cancellata nel 2004, poi le scelte del governo e una serie di congiunture dei mercati avevano permesso di ridurre il ritmo della deforestazione. È così che in soli tre anni la curva del disboscamento si è dimezzata, una discesa che è proseguita fino al 2012, quando si è toccato il livello più basso di abbattimento di alberi con “soli” 4,6mila chilometri quadrati cancellati, l’84 per cento in meno del 2004.
Poi qualcosa è cambiato. Dopo anni di pressioni da parte dei grandi proprietari terrieri per ammorbidire le leggi sul controllo della deforestazione, nel 2012 il governo di centrosinistra della presidente Dilma Rousseff ha approvato una riforma del codice forestale molto criticata dalle associazioni ambientaliste. Le nuove norme hanno allentato i divieti sull’abbattimento degli alberi, rendendo più facile ottenere i permessi, e hanno ridotto le pene in caso di violazioni ambientali, introducendo anche una sorta di amnistia per i condannati degli anni precedenti. Un grande favore ai proprietari terrieri e alle aziende multinazionali, che hanno ripreso a cancellare pezzi interi di foresta a ritmi più accelerati, questo mentre la congiuntura internazionale, sotto forma dell’innalzamento dei prezzi della soia, offriva un assist al disboscamento.
Dal 2013 in poi la deforestazione amazzonica brasiliana ha fatto registrare un incremento costante rispetto ai valori del 2012 e la politica ha voltato lo sguardo dall’altra parte, anche perché rappresentata da personaggi in pieno conflitto d’interessi. Tra tutti il ministro dell’Agricoltura del governo Temer dal 2016 al 2019, Blairo Maggi, il più grande produttore mondiale di soia, quella stessa soia che rappresenta la principale causa di deforestazione del Mato Grosso.
Con la vittoria alle elezioni del 2018 del negazionista climatico Jair Bolsonaro, che ha sempre indicato le leggi contro la deforestazione un freno allo sviluppo economico, la situazione è peggiorata ulteriormente, sull’onda però di quanto già apparecchiato dalle amministrazioni precedenti. Il nuovo presidente ha stravolto la legislazione sul tema, lasciando ancor più mano libera ai protagonisti della deforestazione: secondo uno studio, sono 57 le leggi modificate da Bolsonaro nei primi due anni del suo mandato, mentre nel 2020 le sanzioni per violazioni di tipo ambientale hanno visto un calo del 70 per cento.
In parallelo, le risorse destinate alla protezione ambientale sono state tagliate di netto. In questo contesto, non stupisce che il livello di deforestazione del 2020 sia superiore del 182 per cento rispetto all’obiettivo definito nel 2009 e che l’abbattimento di alberi sia tornato a viaggiare ai ritmi di un tempo, con i valori che sono superiori a quelli del 2008, con la differenza che ai tempi si era in una fase discendente.
La perdita di foresta primaria
Il problema della deforestazione dell’Amazzonia brasiliana si lega a un altro tema, cioè al tipo di foresta sempre più vittima di questo processo, quella primaria (o vergine). Si tratta di ecosistemi incredibilmente ricchi, di fatto privi di ogni elemento di disturbo antropico e fondamentali per l’equilibrio del Pianeta perché capaci di assorbire quantità di CO2 senza paragoni. Da questo punto di vista, la foresta amazzonica costituisce uno dei più grandi polmoni verdi esistenti, in grado di trattenere fino a 200 miliardi di tonnellate di biossido di carbonio, riducendo così le emissioni in atmosfera e limitando i cambiamenti climatici.
Un ruolo, questo, che sta venendo meno a causa del massivo processo di deforestazione, che riguarda sempre più anche quelle aree di vegetazione finora intatte, vergini appunto. Meno alberi significa minore capacità di assorbire anidride carbonica, dunque maggiore rilascio in atmosfera. Solo nel 2020, a livello globale sono andati persi oltre quattro milioni di ettari di foresta primaria, un aumento del 12 per cento rispetto all’anno precedente, sprigionando più di due miliardi e mezzo di tonnellate supplementari di anidride carbonica in atmosfera. Decisivi in questo senso sono stati proprio i dati provenienti dalla foresta amazzonica: essa nel suo complesso ha perso circa due milioni di ettari di foresta primaria, di cui gran parte proprio in territorio brasiliano, con il paese che guida la classifica globale di erosione di foresta vergine.
Come sottolinea uno studio pubblicato su Nature, la legislazione brasiliana molto debole sull’abbattimento di alberi nella foresta cosiddetta secondaria, quella cioè dove già si è fatta sentire la mano dell’uomo, sta creando un effetto domino, con lo sconfinamento sempre più frequente del disboscamento antropico nella foresta primaria.
Un processo che è facilmente osservabile dalle mappe di Global forest watch, dove il rosa dell’abbattimento degli alberi e il verde della foresta primaria vanno sempre più sovrapponendosi. A questo, poi, si aggiunge il tema degli incendi, che anno dopo anno vanno intensificandosi. Nel 2020 c’è stato un netto incremento di focolai, che hanno interessato aree già in parte disboscate, ma non solo: nel mese di settembre, nel 62 per cento dei casi a bruciare è stata foresta primaria.
La pressione internazionale e il rischio-boomerang
A oggi è andato perso circa il 17 per cento della foresta amazzonica. Un dato enorme, che equivale a decine di miliardi di alberi abbattuti, in un processo che tra alti e bassi non si è mai arrestato. Questo ha già prodotto gravi conseguenze sul territorio brasiliano: i periodi di siccità e le alluvioni si alternano in maniera molto più frequente rispetto al passato, un clima impazzito che nasce proprio dalla malattia dell’enorme polmone verde amazzonico. Dal 1980, la stagione secca è cresciuta di circa sei giorni al decennio, dal momento che la riduzione degli alberi si è tradotta in una minore frequenza delle precipitazioni. Ma il peggio potrebbe ancora arrivare, e arriverà visto che non si sta facendo nulla per prevenirlo.
Secondo le proiezioni degli scienziati, la situazione giungerà a un punto di non ritorno quando la deforestazione avrà superato il 20-25 per cento dell’Amazzonia, ma il problema è che le stesse proiezioni prevedono che ai ritmi attuali nel 2030 questo dato sarà già al 27 per cento. La foresta amazzonica rischia così di trasformarsi in una savana semidesertica, mentre gli effetti di tutto questo si riverseranno sulle popolazioni indigene locali ma anche sul resto del paese e del Pianeta, intaccando le economie, le società, la salute delle persone. Secondo il Climate Observatory il Brasile dovrebbe fermare del tutto l’abbattimento di alberi entro il 2030, riforestando al contempo 14 milioni di ettari di territorio: solo così potrà venirne fuori, salvando se stesso e il resto del mondo.
Il Brasile di oggi tra scarse risorse, disinteresse e negazionismo
’attuale presidente Bolsonaro ha ribadito questo impegno anche nei giorni scorsi, in una lettera all’omologo americano Joe Biden. Ma lo ha vincolato al ricevimento di fiumi di miliardi dalla comunità internazionale, più precisamente un miliardo di dollari all’anno per sostenere il paese nella riduzione della deforestazione del 30-40 per cento.
Come hanno sottolineato in una lettera al Guardian due ex ministri dell’Ambiente brasiliani, Marina Silva e Rubens Ricupero, per quanto i fondi internazionali siano un fattore imprescindibile per mettere in atto misure di protezione ambientale, il Brasile di oggi non vive un problema di scarse risorse quanto di disinteresse e negazionismo della classe politica. Lo stesso Bolsonaro, d’altronde, in questi anni ha continuato a tagliare molte delle risorse destinate alla lotta alla deforestazione, motivo per cui il timore delle comunità indigene, degli ambientalisti ma più in generale della società civile è che un eventuale accordo economico con gli Usa e altri stati per la protezione dell’Amazzonia possa rivelarsi un boomerang, offrendo soldi per velocizzare ulteriormente la sua distruzione.
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