Almir Narayamoga Suruí è il capo del popolo dei Paiter Suruí e Raoni Metuktire guida i Kayapo, entrambe tribù che abitano l’Amazzonia brasiliana da tempo immemorabile. I leader indigeni hanno presentato una richiesta alla Corta penale internazionale (Cpi) per aprire un’indagine sul presidente brasiliano Jair Bolsonaro, che accusano di crimini contro l’umanità, e nello specifico contro i popoli indigeni, commessi nel contesto di crimini ambientali.
L’assalto di Bolsonaro contro gli indigeni
Prima ancora di diventare presidente, le dichiarazioni razziste di Bolsonaro hanno reso chiaro il suo atteggiamento verso i popoli indigeni e durante la campagna per le elezioni presidenziali del 2018, l’ex militare non ha nascosto la sua intenzione di aprire l’Amazzonia allo sfruttamento. Una volta al governo, non ha perso tempo nel passare dalle parole ai fatti. Durante i suoi primi giorni alla presidenza, ha trasferito la responsabilità per la demarcazione delle terre indigene dall’agenzia per gli affari indigeni, Funai, al ministero dell’agricoltura. Nei mesi e negli anni a seguire, le politiche estrattive in Amazzonia e nei territori storicamente protetti dalle sue tribù, e il clima di impunità che ha favorito l’illegalità hanno causato un aumento spaventoso della deforestazione e della perdita della biodiversità, nonché lo spostamento forzato di diverse comunità native a causa delle invasioni di taglialegna, minatori e agricoltori.
Chiunque si sia opposto a questo abbattimento sistematico è stato intimidito con la violenza, e a volte punito con la morte.
Di fronte a questa crisi, Almir Suruí e il capo Raoni si sono rivolti a William Bourdon, un avvocato francese con una lunga carriera nell’ambito della difesa dei diritti umani, che insieme alla sua squadra ha presentato la richiesta ufficiale per aprire un’indagine su Bolsonaro alla Cpi il 22 gennaio. “Nel nostro lavoro, rappresentiamo spesso vittime di crimini ambientali, e abbiamo il dovere collettivo di proteggere i diritti dei popoli indigeni,” ci raccontano Bourdon e l’avvocato Charly Salkazanov in un’intervista su questo caso unico, e potenzialmente storico.
Di che crimini è accusato Bolsonaro?
È probabile che le accuse contro Bolsonaro vengano considerate crimini contro l’umanità per la sua persecuzione dei popoli indigeni dell’Amazzonia. Tra i fatti che lo provano ci sono diversi omidici di leader indigeni e lo spostamento forzato di molte comunità dalle loro terre a causa della distruzione della foresta amazzonica e la totale sospensione della demarcazione delle terre native.
Avete presentato una richiesta alla Cpi per un’indagine preliminare. Che cosa significa?
L’azione legale prende la forma di una comunicazione, questo è il termine usato dalla corte. Questa comunicazione viene presentata all’ufficio del procuratore (un organo indipendente della Cpi, ndr), che potrebbe decidere di aprire un indagine o presentare richiesta a una divisone preliminare (pre-trial chamber) per l’autorizzazione ad aprire un’indagine. La procedura inizia con un’indagine e dura parecchio perché ci vuole tempo per compierne una.
Quando pensate di ricevere una risposta dalla corte?
Non sappiamo quali saranno i tempi, ma ci aspettiamo che un’indagine venga compiuta.
Bolsonaro è accusato anche di ecocidio?
Accusiamo Bolsonaro di crimini contro l’umanità, ma l’ecocidio ne fa parte. Che i crimini che denunciamo siano crimini contro l’umanità lo conferma l’articolo 7 dello statuto di Roma (il trattato alla base della Cpi, ndr) che cita “un esteso o sistematico attacco contro popolazioni civili”. Ma questi atti sono stati commessi nel contesto più ampio di crimini ambientali, ovvero il sovrasfruttamento del paese e delle risorse naturali della foresta amazzonica. Infatti, si possono citare numerosi esempi di ecocidio, cioè di danni all’ambiente seri e duraturi con conseguenze gravi anche per la vita umana, all’interno di questo caso.
L’ecocidio non è ancora considerato un crimine internazionale. A che punto siamo con il suo riconoscimento?
Esiste un movimento per il riconoscimento dell’ecocidio come crimine internazionale. Il 15 settembre 2016, l’ufficio del procuratore della Cpi ha annunciato ufficialmente che una delle priorità nella selezione dei casi è la lotta ai crimini ambientali. A gennaio 2021, il Parlamento europeo ha adottato un emendamento molto importante che riconosce l’ecocidio e chiede che venga incluso nello statuto della Cpi. Ci aspettiamo che il caso contro Bolsonaro apra la strada al riconoscimento dell’ecocidio nel contesto della legge internazionale e che la Cpi decida di combattere i crimini ambientali. Crediamo che la corte sia cosciente della gravità dell’emergenza ambientale nel mondo, ed è per questo che chiediamo che apra un’indagine su Bolsonaro.
Siete stati contattati direttamente da Suruí e il capo Raoni per sporgere denuncia contro Bolsonaro?
È iniziato tutto a Bordeaux, in Francia, a un evento organizzato da un’associazione francese per la difesa dell’Amazzonia, Darwin Climate Coalition, nel 2019. Abbiamo conosciuto rappresentanti indigeni, tra cui Raoni, che ci ha parlato della situazione della sua comunità, le politiche criminali di Bolsonaro e gli ostacoli giudiziari in Brasile. Su richiesta di Raoni, abbiamo presentato le condizioni per portare il caso alla Cpi. Da quel momento, è stato fatto un grande lavoro insieme a Darwin Climate Coalition e una squadra internazionale di ong e giuristi per scrivere il rapporto, ovvero la comunicazione presentata alla corte. Siamo molto grati alle persone che ci hanno aiutato perché senza di loro questo non sarebbe stato possibile.
Cos’è contenuto nel rapporto?
Metterlo insieme è stato un lavoro enorme della durata di più di un anno. Abbiamo fatto del nostro meglio per scrivere una comunicazione il più completa possibile: sono più di 60 pagine di ricerca, fonti e informazioni, tutte verificate attentamente. Abbiamo addirittura analizzato gli elementi del linguaggio di Bolsonaro quando era ancora un candidato presidenziale per dimostrare che la sua politica ai danni degli indigeni fosse premeditata. Siamo riusciti a trovare prove della volontà di Bolsonaro di distruggere i popoli indigeni, anche con l’omicidio, lo spostamento forzato e la persecuzione.
È tutto ben documentato. Abbiamo i racconti dei testimoni diretti, tra cui delle vittime indigene, i numeri e i nomi delle persone uccise e delle comunità obbligate a migrare a causa dell’invasione degli interessi industriali che, grazie alle politiche di Bolsonaro, agiscono in piena libertà. Abbiamo anche elementi che provano la persecuzione dei nativi, ad esempio la ristrutturazione delle agenzie che si occupano degli affari indigeni e della demarcazione delle loro terre che sono state private dei fondi e messe sotto il comando di figure militari.
Se la Cpi dovesse decidere di procedere con un’indagine, che poteri avrebbe?
Nel corso di un’indagine, l’ufficio del procuratore ha poteri ampi e diversificati. Può trovare ed esaminare prove, interrogare vittime e testimoni. Può anche richiedere l’assistenza e la collaborazione di altri stati e delle organizzazioni internazionali e mandare investigatori nelle zone dove i presunti crimini sono stati commessi.
Il governo guidato da Bolsonaro riconoscerebbe la corte come legittima?
La costituzione brasiliana riconosce la Cpi. Inoltre, gli articoli 1 e 17 dello statuto di Roma stabiliscono che la giurisdizione della Cpi è complementare a quella delle corti nazionali nel caso in cui queste non siano in grado o si rifiutino di avviare un processo di giustizia. Nel nostro caso, il principio di complementarità è soddisfatto. Bolsonaro ha poteri ampi nel paese, che è il motivo per cui abbiamo portato l’azione legale alla Cpi, e la nostra documentazione dimostra l’incapacità o la mancanza di volontà da parte del sistema giudiziario brasiliano di indagare i responsabili degli attacchi e della persecuzione ai danni dei popoli indigeni. La Cpi ha già avuto a che fare con casi del genere – in cui l’autorità politica detiene tutto il potere e ostruisce il processo di giustizia – quindi non sarebbe la prima volta.
Parlando con i leader indigeni, cosa vi hanno detto?
Le discussioni dirette con il capo Raoni sono state intense ed emotive. Raoni ha espresso la sua tristezza ma anche il suo desiderio di agire per migliorare le condizioni del suo popolo. Seguire questo caso è per noi una grande responsabilità e un grande onore. Sappiamo che Almir Suruí e il capo Raoni non sono mossi dai propri interessi, ma da quelli dell’Amazzonia e di tutta l’umanità, e perché credono che proteggere i popoli indigeni sia il loro dovere.
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