a cura di Pierluigi Paris, Gianfranco Minotta e Giustino Mezzalira
Foreste, agricoltura e zootecnia sono attività nettamente separate tra loro nelle moderne pratiche colturali intensive. Non era così sin dagli albori dell’agricoltura fino a pochi decenni fa. Ridurre le recenti barriere tra alberi, colture ed allevamenti animali può avere conseguenze positive sulla biodiversità degli agroecosistemi e per combattere e mitigare la crisi climatica. L’agroforestazione studia e promuove le suddette tematiche.
Un ecosistema alle origini della specie umana
L’agroforestazione (o agroselvicoltura) è una nuova disciplina scientifica che, partendo dall’ecologia forestale ed agraria, studia le consociazioni tra alberi forestali e specie agrarie, ed i servizi ecosistemici emergenti da sistemi complessi. I sistemi agroforestali, rispetto alla monocoltura, determinano un più efficiente uso delle risorse naturali alla base della produzione primaria, cioè la radiazione solare per la fotosintesi, e l’acqua ed i nutrienti minerali del suolo per l’assorbimento radicale. Un esempio di sistema agroforestale naturale è la savana, costituita prevalentemente da alberi distanziati tra loro, le cui chiome lasciano filtrare la luce per le erbe sottostanti come pascolo per gli erbivori, accompagnati dai loro predatori.
Gli alberi, con l’apparato radicale più profondo, usano l’acqua negli strati meno superficiali del suolo durante la stagione secca, mentre le erbe usano l’acqua che bagna la superficie del suolo durante la stagione umida. La savana, secondo The savanna hypothesis è l’ecosistema dove gli ominidi pre-sapiens si evolsero, passando dall’andatura da quattro a due gambe, lasciando la vita sugli alberi per avventurarsi al suolo, con il vantaggio di una visuale più ampia per la caccia o la raccolta di cibo, ma avendo sempre la possibilità di rifugiarsi sugli alberi in caso di predatori pericolosi. La savana era un ecosistema ricco di risorse e sicuro per gli ominidi pre-sapiens. La disponibilità di proteine animali utili per l’evoluzione umana è ben più alta nella savana che nelle foreste. Tale percezione della savana sarebbe rimasta impressa nel nostro istinto, ereditandola da quegli ominidi, secondo studi sulla percezione visiva degli ecosistemi da parte della popolazione umana. Tutti noi, al di là dei condizionamenti culturali, riconosciamo nel paesaggio a savana un ecosistema piacevole ed accogliente. Tant’è che la prevalente struttura dei parchi urbani riflette la suddetta organizzazione tra alberi e vegetazione erbacea. Ciò può avere conseguenze anche nella futura pianificazione del paesaggio rurale ad uso turistico.
I sistemi agroforestali mediterranei dell’antichità, come savane antropiche
Agricoltura e allevamento si sono evoluti in alcune aree del mondo a partire dal 10-12.000 a. C., in primis con forme itineranti, secondo le modalità della agricoltura itinerante o “slash and burn agriculture”. Un appezzamento di foresta primaria viene privato della copertura arborea tagliando e bruciando gli alberi; il terreno liberato è messo a coltura per alcuni anni utilizzando la fertilità del suolo sviluppata dalla foresta. Una volta esaurita questa fertilità, per l’asportazione da parte delle colture dei macro e micronutrienti del suolo (azoto, fosforo, potassio, calcio, magnesio etc.), l’appezzamento è abbandonato, spostandosi su di una nuova area forestale da mettere a coltura. L’appezzamento abbandonato è ricolonizzato dalla vegetazione forestale iniziando un nuovo accumulo di sostanza organica e di nutrienti minerali. Anche la “slash and burn agriculture” può essere considerata una forma, seppure primitiva, di agroselvicoltura, in cui la produttività delle colture erbacee dipende dalla fertilità del suolo precedentemente sviluppata dagli alberi. La “slash and burn agriculture” è ancora praticata in alcune aree del mondo. Spesso non tutti gli alberi vengono eliminati, rilasciando quelli che producono frutti utili per l’alimentazione umana o per il bestiame al pascolo, nonché l’ombra rinfrescante dalla calura estiva. Così si sono sviluppate delle savane antropiche o sistemi agrosilvopastorali con il progredire delle tecniche agricole e coll’affinamento della gestione della fertilità del suolo, passando dall’agricoltura itinerante a quella stanziale.
Intorno al 2500 a.C nella zona Sud occidentale della Spagna, in base a studi sulle serie cronologiche delle stratificazioni di polline, si assistette ad un cambiamento della vegetazione. Non più costituita da sole specie forestali (querce e pini), bensì da querce e specie erbacee spontanee per il pascolo dei primi allevamenti. Un evento del genere interessò anche l’Italia, con un rinnovamento degli ecosistemi naturali che condusse all’adozione, anche nei nostri territori, di nuovi sistemi silvopastorali. Il paesaggio agrario italiano si delineò nel primo millennio a.C., con la presenza degli etruschi nell’Italia centro settentrionale e dei greci nell’Italia meridionale. Sistemi agrosilvopastorali, principalmente con alberi di querce, si diffusero in tutto il bacino del Mediterraneo, ed il nucleo più consistente è ancora ben presente nella Penisola iberica con i dehesas spagnoli ed i montados portoghesi. In Italia permangono ancora nuclei residui di questo antico paesaggio dei seminativi e dei pascoli arborati, con una presenza molto significativa in Sardegna dei Meriagos.
Sistemi agroforestali con alberi da frutto
Gli alberi da frutto sono sempre stati un’importante componete dei sistemi agricoli, per il ruolo nutrizionale della frutta fresca e secca. Nel Mediterraneo, la vite e l’ulivo producono due importanti componenti delle diete locali, l’olio d’oliva ed il vino. Gran parte dei frutteti intensivi che attualmente dominano la frutticoltura moderna sono una acquisizione relativamente recente dovuta alla disponibilità di cultivar nanizzate e a fruttificazione laterale. Le moderne cultivar permettono alte densità d’impianto, cioè con piante ravvicinate tra di loro, e drastiche potature meccanizzate per ridurre il volume della chioma senza ridurre la produzione di frutti. Sino ad un recente passato, gran parte dei fruttiferi venivano invece coltivati ad ampi sesti per lasciare sviluppare la chioma. Per non sprecare prezioso terreno agricolo, era quindi più conveniente praticare la consociazione degli alberi da frutto con colture erbacee e/o pascolo.
Nel 1910 le statistiche nazionali riportavano circa 5,4 milioni ha di fruttiferi consociati, che si sono più che dimezzati a 2,1 milioni ha nel 1980, anno in cui le statistiche ufficiali cessarono la distinzione tra fruttiferi in consociazione ed in monocoltura. Riduzioni meno significative si sono avute per l’olivo e il castagno, colture che non hanno risentito in modo così massiccio dell’affermarsi delle nuove cultivar moderne a bassa vigoria. Ancora oggi in Italia l’olivo è coltivato in forma agroforestale su circa un milione di ha, per cui non è raro vedere nelle nostre campagne l’olivo associato a colture erbacee sia estensive che orticole, nonché al pascolo, soprattutto per gli oliveti marginali a minor redditività. Significative aree residue di sistemi agroforestali con melo, pero e ciliegio si trovano in Centro Europa (Stroubst, in Tedesco). In Italia, la consociazione tra alberi da frutto, alberi forestali, colture agrarie e vite prese forma nelle “piantate”, con innumerevoli varianti geografiche diffuse sia in Italia sia in atri Paesi mediterranei dando luogo a veri e propri paesaggi agricoli arborati.
Monocoltura e agricoltura industrializzata
A partire dal secondo dopoguerra, la rapida e capillare diffusione dell’agricoltura industrializzata, basata sulla meccanizzazione, l’uso dei combustibili fossili e dei composti chimici di sintesi per la fertilizzazione ed il controllo di patogeni ed erbe infestanti, ha completamente cambiato i paradigmi delle attività agricole, della zootecnica e della gestione forestale, con una rapida semplificazione degli agroecosistemi, e la perdita di gran parte del patrimonio arboreo nelle aree agricole.
A causa dell’intensificazione dell’agricoltura e della zootecnia, a partire dall’Unità d’Italia, la superficie di seminativi e pascoli è diminuita del 45 per cento (da 18,4 a 10,14 milioni ha). Parallelamente, grazie all’abbandono dei terreni agricoli marginali, la superfice forestale è raddoppiata da 5,6 a 10,98 milioni di ha. Questo è ben noto agli addetti ai lavori e registrato dalle statistiche forestali nazionali. È invece sfuggita all’attenzione dei più la perdita della componente arborea forestale nel tessuto agricolo. Si può parlare di vera e propria “deforestazione dei terreni agricoli”, con una perdita massiccia ed incontrollata della maggior parte della componete arborea dei sistemi agroforestali. Con importanti ripercussioni negative sulla biodiversità, sulla difesa del suolo dall’erosione, sul microclima delle superficie agricole, e sulla produzione legnosa. A titolo d’esempio, si può citare la cosiddetta pioppicoltura di ripa, cioè la coltivazione del pioppo in filari lungo le strade ed i canali di campagna, nonché ai bordi dei terreni agricoli. Tra il 1955 ed il 1967, la pioppicoltura di ripa contribuiva all’8 per cento di tutta la produzione legnosa prodotta in Italia pur occupando un insignificante superficie agricola.
L’attuale diffusione dei sistemi agroforestali in Europa è stata recentemente studiata nell’ambito del progetto di ricerca europeo Agforward indirizzato a valorizzare i residui sistemi agroforestali tradizionali, e a studiare nuove pratiche colturali di agroselvicoltura secondo i principi dell’innovazione tecnologica sostenibile. Ciò nel quadro della post-modernizzazione del settore agroforestale europeo contro la crisi climatica e per la sicurezza alimentare e di materia prima legnosa. Attualmente i sistemi agroforestali coprono circa il dieci per cento delle superfici agricole europee e alcune zone dell’Italia presentano una estensione delle aree agroforestali sopra la media europea. I suoli e le foreste dell’Italia e dell’Europa posso trarre importanti benefici da una crescita dell’agroselvicoltura.
Suoli agricoli europei e mitigazione del cambiamento climatico con i sistemi agroforestali
Uno dei gruppi di ricerca del progetto Agforward ha studiato l’effetto dell’agroforestazione sulle principali problematiche ambientali che interessano i terreni agricoli europei e stimato il potenziale di stoccaggio del carbonio di differenti sistemi agroforestali. Sono state mappate le aree europee con le maggiori problematiche ambientali per il suolo (erosione e basso contenuto di sostanza organica) e le acque (inquinamento da nitrati e salinizzazione), nonché le aree più colpite dalla crisi climatica e quelle con scarsa biodiversità, per carenza d’impollinatori, di antagonisti naturali dei parassiti e per perdita di biodiversità del suolo. Dalla sovrapposizione cartografica di queste aree, è stato calcolato che circa il 94 per cento delle terre coltivate in Europa soffre di almeno una problematica ambientale, in cui l’applicazione di sistemi agroforestali risulterebbe particolarmente utile. I pascoli sono generalmente meno colpiti delle aree con colture agricole a seminativo. Aree particolarmente critiche sono state individuate nella Francia Nord-occidentale, in Danimarca, nella Spagna centrale, nell’Italia settentrionale e sudoccidentale, in Grecia e nella Romania orientale.
Queste aree con il maggior numero di emergenze sono state indentificate come prioritarie. Successivamente, un gruppo di esperti di agroforestazione ha proposto i sistemi agroforestali più adatti alle aree prioritarie. Questi sistemi comprendono molte pratiche differenti: le siepi arborate lungo i confini dei campi, le fasce dei cedui a rapida crescita, ed i sistemi silvopastorali o silvoarabili. Per ciascun sistema è stato valutato il potenziale di stoccaggio del carbonio nella produzione legnosa. I risultati del progetto mostrano che l’attuazione dell’agroforestazione nelle aree prioritarie porterebbe, a seconda del tipo di agroforestazione, ad un sequestro variabile da 2,1 a 63,9 milioni di tonnellate di carbonio per anno, corrispondenti a valori tra l’1,4 e il 43,4 per cento delle emissioni europee di gas a effetto serra relative al settore agricolo europeo (12 per cento delle emissioni totali) e contribuirebbe inoltre ad attenuare le problematiche ambientali connesse alla salute del suolo, alla qualità delle acque e alla biodiversità.
Agroselvicoltura e prevenzione degli incendi forestali
Gli incendi sono sempre stati parte integrante dell’ecologia di molti ecosistemi terrestri, ma la loro frequenza e intensità sono in aumento in molte parti del mondo negli ultimi anni. Gli incendi un tempo erano un fenomeno naturale, ma dopo che gli umani hanno imparato a controllare il fuoco, è stato usato come uno strumento di gestione per aumentare la fertilità del suolo, per rigenerare la vegetazione naturale per il pascolo e per controllare la vegetazione infestante.
Tuttavia, attualmente incendi incontrollati minacciano la vegetazione naturale, la biodiversità paesaggistica, le comunità e le economie; rilasciano inoltre in atmosfera grandi quantità di anidride carbonica, contribuendo così all’aumento della temperatura globale. Temperature più elevate ed estati più asciutte hanno aumentato il rischio di incendi in aree ricche di biodiversità, quali le aree dei Paesi del Mediterraneo europeo e hanno provocato vittime umane. In Europa, Il 93 per cento degli incendi in foresta interessano i Paesi mediterranei. Ogni anno in media 300-400mila ha di superficie forestale è percorsa dal fuoco in Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia e Cipro, cioè circa 0,51-0,69 per cento della superfice forestale totale di questi Paesi.
Ricerche sono in corso per indagare se l’agroforestazione possa essere uno strumento di gestione per ridurre gli incendi nei Paesi del Mediterraneo europeo, soprattutto con il pascolo delle zone boschive ed arbustive. Sono stati correlati eventi d’incendio dal 2008 al 2017 ed i relativi dati sulla copertura del suolo (bosco, pascoli, arbusteti ed aree agroforestali). I risultati indicano che le aree agroforestali hanno avuto meno incendi di foreste, arbusti o praterie. L’agroforestazione, che occupa il 12 per cento delle aree studiate, è stata associata a solo il 6 per cento degli incendi, mentre i cespugli, che occupano il 16 per cento, hanno subito il 41 per cento degli incendi. Le aree arbustive sono particolarmente a rischio di incendio: dove la terra non è gestita o utilizzata in modo non attivo, c’è un accumulo di vegetazione secca e di arbusti che creano condizioni ideali per il fuoco. L’abbandono delle attività agricole e della pastorizia è un elemento importante nel rischio di incendio. In molte parti del Mediterraneo, l’invecchiamento della popolazione e l’abbandono hanno portato a vaste aree di terre non gestite.
Il risultato è un aumento della biomassa infiammabile (combustibile) negli arbusti che può essere facilmente innescata dall’attività umana e da eventi naturali, come i fulmini. Rispetto all’utilizzo di macchinari per l’eliminazione della vegetazione infiammabile, l’agroforestazione, con il pascolo in bosco, utilizza meno macchinari e quindi meno combustibili fossili. Inoltre, i pascoli arborati possono favorire il benessere e la resa produttiva degli animali, riducendo lo stress termico degli animali al pascolo durante la stagione calda. Ricerche sono in corso in numerosi Paesi del Sud America, principale esportatore mondiale di carne bovina. Nuovi sistemi silvopastorali sono studiati e praticati anche in Italia da agricoltori pionieri, soprattutto con l’allevamento di avicoli a terra (polli da carne, galline ovaiole, oche) sotto copertura arborea di fruttiferi e di olivo.
Serve una nuova mentalità
Nonostante i suddetti ed innegabili vantaggi, in Italia l’agroforestazione è ancora sottoutilizzata rispetto alle sue potenzialità. Ciò è dovuto in primis al prevalente orientamento di netta separazione tra cultura forestale e cultura agricola, frutto del recente approccio specialistico. Occorre un approccio più olistico sia per l’insegnamento, sia a livello amministrativo e legislativo. Sono ancora pochissime le Università e gli Istituti d’istruzione del settore agricolo e forestale che includono l’agroforestazione nei curricula formativi. Ciò si ripercuote a livello amministrativo e legislativo, con i due settori, Foreste e Agricoltura, nettamente separati. Così, ad esempio, la forestazione dei terreni agricoli è condotta soprattutto con piantagioni forestali. Nei decenni passati i sussidi pubblici per la riforestazione dei terreni agricoli hanno escluso la possibilità di realizzare impianti agroforestali in consociazione con colture erbacee e/o pascolo. Cosicché, specie a legname pregiato, come il noce o il ciliegio, tradizionalmente coltivati nelle “piantate” sui terreni agricoli più fertili, sono stati usati per piantagioni su terreni di scarsa fertilità, spesso con esiti fallimentari.
Solo a partire dalla seconda metà del decennio 2000-2010, dopo il primo progetto europeo sull’agroforestazione del 2001-2005, fu introdotta in Italia ed in Europa la misura di agroforestazione per il finanziamento di nuovi sistemi silvoarabili. Purtroppo con dotazioni finanziare sempre ben inferiori a quelle per le piantagioni forestali. Anche nel settore agricolo, si fa fatica a riconoscere un ruolo produttivo ed ambientale agli alberi forestali presenti nel mosaico dei terreni per le attività agricole. Può sembrare assurdo, ma ancora oggi per i regolamenti della Politica agricola comunitaria a sostegno del reddito agricolo, tali alberi, in base al numero e alla dimensione delle chiome, possono essere considerati delle tare sulla superfice agricola utilizzata delle aziende, che vanno a ridurre il contributo pubblico di sostegno al reddito dell’agricoltore.
Sono quindi numerosi e significativi gli ostacoli che si frappongono alla corretta ed equilibrata implementazione dell’agroforestazione per una gestione sostenibile del territorio e delle risorse agricole e forestali. Per la rimozione di questi ostacoli si sono recentemente attivate, con diverse iniziative, l’Associazione italiana di agroforestazione, la Società italiana di selvicoltura ed ecologia forestale, ambedue in collaborazione con la European agroforestry federation. In un recente convegno internazionale in Italia, Agroforestry and the green architecture of the new Cap, l’agroselvicoltura è stata indicata come una priorità per la riforma della Politica agricola comunitaria.
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