Un carico di 29 tonnellate di carote riversato per terra di fronte al Goldsmiths Art College di Londra. La provocazione, messa in scena nell’autunno del 2020, si chiama Grounding ed è opera dell’artista spagnolo Rafael Pérez Evans. La sua performance si è chiusa con un lieto fine perché gli ortaggi sono stati riutilizzati come mangime per gli animali, ma non si può dire lo stesso per le confezioni che ammassiamo nel carrello per approfittare di un allettante 3×2, per la frutta lasciata a marcire a centro tavola, per i barattoli che svuotiamo direttamente nel cestino dopo aver notato la data di scadenza ormai superata. Se andiamo a ricostruire lo spreco alimentare che si genera nell’Unione europea, partendo dal campo o dall’allevamento e arrivando fino alla nostra cucina, raggiungiamo un totale di 88 milioni di tonnellate. È come se ciascuno di noi gettasse nella spazzatura 173 chili di cibo all’anno, quasi mezzo chilo al giorno. Un palese controsenso che le istituzioni europee si impegnano a scardinare al più presto.
Chi paga il prezzo dello spreco alimentare
Quando le nostre mamme ci esortavano a non lasciare il cibo nel piatto pensando ai bambini che muoiono di fame, in fondo, non avevano poi tutti i torti. Il fatto che un terzo del cibo prodotto nel mondo venga sprecato fa a pugni con le proiezioni che nel 2050 vedono 2 miliardi di persone in più rispetto a oggi, con la necessità di incrementare del 70 per cento la produzione alimentare. Nonostante la solenne promessa internazionale di sradicarla entro il 2030, la fame nel mondo esiste eccome. A soffrirne sono 690 milioni di persone, un numero che nell’ultimo anno è addirittura aumentato, complice il coronavirus. A tutti noi è capitato di osservare con gli occhi sbarrati le immagini dei bambini denutriti nei villaggi africani, ma più di rado sentiamo dire che anche nella nostra benestante Unione europea il 6,7 per cento della popolazione non è riuscita a permettersi un pasto di qualità ogni due giorni nel 2019 (la stima arriva dall’Eurostat ed è riferita all’Europa a 28, Regno Unito compreso).
Questa non è l’unica emergenza che viene esacerbata dallo spreco alimentare. C’è anche quella climatica, visto che nella sola Unione europea ogni anno si emettono in atmosfera 170 milioni di tonnellate di CO2 unicamente per produrre e smaltire questi 88 milioni di tonnellate di cibo buttato. Per non parlare di tutto il denaro sperperato per produrlo, trasformarlo e trasportarlo fino al negozio: secondo le stime ufficiali, riferite al 2012, il costo si aggira sui 143 miliardi di euro.
L’Unione europea scende in campo
Le istituzioni europee si sono espresse in modo molto chiaro. Il Parlamento vuole che lo spreco alimentare sia dimezzato entro il 2030 e la Commissione ha promesso di introdurre obiettivi giuridicamente vincolanti entro il 2023. Questo percorso coinvolge sia il piano d’azione per l’economia circolare sia la strategia From farm to fork (Dal produttore al consumatore) per un sistema alimentare sostenibile. Entrambi sono colonne portanti del Green Deal europeo, il piano di transizione verde volto ad azzerare l’impatto climatico del Continente entro il 2050.
Prima di passare all’azione, la Commissione si è presa quest’anno di tempo per condurre una serie di analisi ed elaborare metodologie di misurazione puntuali e precise, anche tenendo conto delle differenze tra Stato e Stato. Gli ultimi dati ufficiali per esempio ci dicono che i più spreconi in assoluto sono gli olandesi, con un’esorbitante media di 541 chili pro capite buttati nella spazzatura. Noi italiani ce la caviamo piuttosto bene, collocandoci a metà classifica. Anzi, stando all’edizione 2021 dell’Osservatorio Waste Watcher (che si basa sui sondaggi sottoposti alle famiglie), la pandemia ci ha lasciato in eredità una buona dose di attenzione in più.
Siamo sicuri che sia davvero scaduto?
Se andiamo a scandagliare i dati disponibili, scopriamo che il 19 per cento dello speco alimentare avviene nell’industria della trasformazione e una quota molto più alta, il 53 per cento, nelle nostre case. “È evidente che il consumatore ha un approccio allo spreco alimentare molto legato al buon senso, alla sua attitudine e alla sua sensibilità. Difficilmente le norme europee potranno ‘costringerlo’ ad attuare certi comportamenti”, commenta Daniela Rondinelli, europarlamentare che fa parte della commissione per l’Ambiente, la sanità pubblica e la sicurezza alimentare (Envi). “Piuttosto, lavoreremo con la Commissione per offrire al consumatore gli strumenti per fare una spesa sostenibile, attraverso informazioni chiare su cosa sta comprando e come va consumato”.
Già, perché quando gettiamo via un pacco di pasta dimenticato in fondo alla dispensa, sbuffando perché ormai è scaduto, spesso ignoriamo il fatto che quella pasta può essere ancora cotta e consumata con la massima serenità. Solo la dicitura “da consumarsi entro”, infatti, attesta che quel prodotto non è più sicuro dopo una certa data. Quella sì che va rispettata scrupolosamente, perché si riferisce a beni altamente deperibili come la carne e il latte, ad esempio. Quando leggiamo “da consumarsi preferibilmente entro”, invece, ci siamo imbattuti nel termine minimo di conservazione che ci dà un’indicazione ben diversa: a partire dalla data indicata si potrebbero alterare le caratteristiche organolettiche o nutrizionali del prodotto. L’esempio da manuale sono i cracker che magari diventano un po’ meno fragranti ma restano commestibili, a patto che la confezione sia integra e sia stata conservata in un luogo fresco e asciutto. “La Commissione sta valutando possibili opzioni per semplificare questa marcatura e renderla più facilmente comprensibile”, spiega a LifeGate Nicola Procaccini, eurodeputato del gruppo dei Conservatori e Riformisti europei.
Cibo delizioso ed economico a portata di app
Un’altra bella fetta dello spreco alimentare in Europa si origina nel ramo della ristorazione e del catering (12 per cento) e della vendita all’ingrosso o al dettaglio (5 per cento). Qui, in parallelo agli sforzi normativi delle istituzioni, stanno emergendo alcuni progetti promettenti, fatti di ingegno e un pizzico di creatività.
Mettiamoci nei panni del panettiere di quartiere che a fine giornata si trova un mucchio di pizzette e focaccine invendute. Fino a non troppo tempo fa, la sua unica opzione era buttarle nell’immondizia. Oggi ha un’altra possibilità: iscriversi all’app Too good to go, comporre una magic box e metterla in vendita a un prezzo ribassato che copre almeno le materie prime e la manodopera. L’utente intercetta nell’app il suo panettiere di fiducia (o decide che è arrivato il momento giusto per sperimentarne uno nuovo!), passa a ritirare la sua magic box e ha la cena pronta per tutta la famiglia.
Nata in Danimarca nel 2015, la startup ormai è presente in 14 paesi europei, con numeri di tutto rispetto: a ottobre 2020 l’Italia ha tagliato il traguardo del milione di magic box in un anno e mezzo di attività, mentre la Francia ha sfondato il tetto dei 20 milioni in quattro anni. “In tutti questi paesi Too good to go ha riscosso un grande successo fin da subito”, ci conferma la responsabile pr Ilaria Ricotti, anticipandoci anche qualche progetto in serbo per i prossimi mesi: “A settembre 2020 siamo arrivati anche a Boston, New York e Philadelphia. Nel 2021 vogliamo raggiungere nuove città, tanto negli Stati Uniti quanto in Europa”.
“L’app sicuramente è utile, altrimenti non si spiegherebbe una diffusione così rapida, ma è pur sempre un piccolo tassello all’interno di un problema enorme”, precisa Ricotti. Con questa consapevolezza, la startup ha istituito un dipartimento Movement che lavora sullo spreco alimentare coinvolgendo persone, aziende, scuole e politica.
Un problema collettivo, tante soluzioni praticabili
Mentre si lavora a tappeto sul fronte dell’educazione, le proposte sul tavolo delle istituzioni europee sono tante e variegate. “La Commissione europea sta studiando le modalità più idonee per la valorizzazione degli alimenti che non sono più destinati al consumo umano per motivi commerciali, problemi di lavorazione o altri difetti. Alimenti che però potrebbero essere trasformati in fertilizzanti e mangimi, in sicurezza e a costi ridotti”, spiega a LifeGate Nicola Procaccini. “Una possibile forma potrebbe essere quella di creare piattaforme che mettano in contatto i fornitori con gli agricoltori e gli allevatori della zona”.
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Il recupero del cibo inutilizzato può anche diventare uno strumento di lotta alla povertà, ricorda Daniela Rondinelli. “Si potrebbe modificare la direttiva europea sull’Iva per autorizzare le esenzioni fiscali sulle donazioni di cibo e sui prezzi variabili legati alle date di scadenza. Oppure si potrebbe attingere al Fondo agricolo europeo per lo sviluppo rurale o al Fondo di aiuti europei agli indigenti per facilitare la donazione di cibo, coprendo i costi di raccolta, trasporto, stoccaggio e distribuzione”.
Il fatto che lo spreco alimentare sia una distorsione da ridurre al più presto, insomma, è assodato. Le idee ci sono. Alle istituzioni il compito di metterle in pratica, a noi quello di portare un po’ di consapevolezza in più nelle nostre abitudini quotidiane.
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