“L’Amazzonia è un bioma che genera benefici globali, ma i problemi e i costi della sua protezione non possono restare soltanto locali. Ciascuno deve fare la sua parte”. Per Emanuela Evangelista, biologa italiana classe 1968 trapiantata da una ventina d’anni nel remoto villaggio brasiliano di Xixuaú, la preservazione della foresta amazzonica passa da tutti noi, che con le nostre scelte di consumo e il nostro attivismo possiamo avere un ruolo nella lotta alla terribile deforestazione che sta ammalando il principale polmone verde del Pianeta, rischiando di trasformarlo in savana.
Emanuela Evangelista da 20 anni lavora per la tutela dell’Amazzonia
Evangelista da anni è impegnata nella divulgazione dei temi dell’Amazzonia e della sua biodiversità. Nel 2000 si è trasferita a Xixuaú su invito dell’Istituto nazionale di ricerca in Amazzonia per uno studio su un mammifero acquatico minacciato di estinzione di cui all’epoca si avevano pochissime informazioni, la lontra gigante. Da quella ricerca è poi passata a interessarsi dell’ecosistema nel suo insieme, delle popolazioni locali e della conservazione della foresta tropicale, attraverso Amazônia Onlus, di cui è presidente.
Ambientalista dell’anno per Legambiente nel 2009, nel 2020 è stata insignita dal presidente della repubblica Sergio Mattarella della carica di ufficiale dell’Ordine al merito della repubblica italiana, “per il suo costante impegno, in ambito internazionale, nella difesa ambientale, nella tutela delle popolazioni indigene e nel contrasto alla deforestazione”.
LifeGate l’ha raggiunta telefonicamente per un’intervista, per parlare dello stato di salute della foresta amazzonica, sempre più minacciata dalle attività antropiche.
Chi c’è alla base del processo di deforestazione: è solo un discorso di grande sfruttamento dall’alto o anche una questione legata alla povertà dei piccoli villaggi rurali?
La deforestazione in Amazzonia è legata a un sistema di mercato, a una domanda sia nazionale che internazionale. Si disbosca per convertire aree forestali in terreni agricoli, come quelli di soia, oppure in pascoli estensivi per la produzione di carne bovina. Ma lo si fa anche per estrarre legname pregiato e minerali preziosi. C’è insomma una deforestazione legata all’esportazione di carne, legnami e minerali ma ovviamente c’è anche una componente nazionale, che non è solo una domanda locale di prodotti ma anche una necessità legata allo sviluppo economico, dal momento che la deforestazione crea posti di lavoro.
“Dovremmo blindare le foreste, quindi raggiungere il famoso punto zero di deforestazione oggi, non tra dieci anni, e poi riforestare le aree depredate”.
— Emanuela Evangelista, Amazônia Onlus
In Brasile il fenomeno è concentrato soprattutto nel cosiddetto arco di deforestazione, una fascia a sud e a est dell’area amazzonica. Lì c’è tutta una popolazione urbana che dipende dall’industria del legname, dall’attività mineraria, dall’agricoltura. La manodopera agricola tende a essere più specializzata, si tratta di personale qualificato che proviene per lo più dal sud del Brasile, non si tratta quindi di una fonte di reddito per le popolazioni tradizionali, per gli abitanti delle foreste. Questi di solito sono allontanati dalla foresta dal processo di deforestazione, vengono spinti verso le zone più urbane ed esclusi dallo sviluppo.
Quelli che vivono in foresta lì dove la foresta c’è ancora devono però fare i conti con la povertà, un dato di fatto nei piccoli villaggi rurali, che però di solito non porta a deforestazione ma piuttosto a degrado, cioè a quel bracconaggio che è praticato dove non ci sono alternative di reddito e che causa l’impoverimento della foresta.
Qual è la situazione della cosiddetta foresta primaria, quella a più alta biodiversità, nell’ambito del processo di deforestazione?
La foresta primaria è fortemente minacciata dalla deforestazione cumulativa. Dagli anni Settanta, cioè da quando l’Istituto nazionale di ricerca spaziale in Brasile ha iniziato a raccogliere dati, è già andato perso l’equivalente di due volte la Germania, cioè il 18 per cento della copertura originale. È un fenomeno estremamente grave perché va avanti da diversi anni. Nel 2019 abbiamo perso 10mila chilometri quadrati di foresta, l’anno scorso 11mila, ma a preoccupare è più che altro il dato cumulativo perché una deforestazione cumulativa del 20-30 per cento, contro il 18 per cento di ora, porterebbe a un punto di non ritorno e alla trasformazione della foresta amazzonica in savana. Questo significherebbe che l’ecosistema forestale non sarà più in grado di regolare il proprio clima, di produrre le proprie nuvole e le proprie piogge e quindi si trasformerà in una foresta più arida.
Gli studi più recenti prevedono che al ritmo di deforestazione attuale il raggiungimento di questo punto di non ritorno si avrà in 15-30 anni. Una volta messo in moto, il processo è irreversibile e riguarderà il 60-70 per cento della foresta e quindi anche la cosiddetta foresta primaria, liberando peraltro enormi quantità di anidride carbonica in atmosfera con conseguenze gravissime per tutti.
Chi soffre più la deforestazione amazzonica a livello locale e quali sono invece le conseguenze per il Pianeta?
A soffrire più di tutti sono gli abitanti tradizionali, le popolazioni indigene, cioè tutta la popolazione della regione amazzonica. La deforestazione porta illegalità, crea sviluppo solo per pochi e causa povertà per tutti gli altri. Solo in Brasile parliamo di 25 milioni di persone che vivono nella regione amazzonica e che dipendono da questo ecosistema.
Ma a soffrire per la deforestazione è anche il sud del Brasile, un’area che produce il 70 per cento del Pil nazionale e che lo fa anche grazie a quelle piogge generate proprio dalla foresta amazzonica e che sono già in via di diminuzione. Senza queste piogge la regione di San Paolo, l’area più industrializzata del Brasile, sarebbe desertica, perché si trova alla stessa latitudine del deserto cileno di Atacama, della Namibia, dell’Australia. L’Amazzonia crea però i cosiddetti fiumi volanti, cioè correnti d’aria che trasportano enormi quantità di vapore acqueo verso il sud del Brasile e anche al resto del mondo, favorendo le precipitazioni e alimentando il ciclo dell’acqua sul Pianeta.
“La deforestazione porta illegalità, crea sviluppo solo per pochi e causa povertà per tutti gli altri”.
— Emanuela Evangelista, Amazônia Onlus
In ultima istanza, quindi, a soffrire della deforestazione è tutto il Pianeta perchè la foresta stabilizza il clima globale ed è un enorme deposito di carbonio che non possiamo permetterci di liberare in atmosfera. Inoltre oggi sappiamo che le foreste ci proteggono da nuove future possibili pandemie, in Brasile abbiamo dati sufficienti per dire che là dove c’è distruzione della foresta si verifica un notevole aumento dei casi di malaria, di dengue e di altre malattie infettive. La distruzione dell’Amazzonia ha quindi anche implicazioni sanitarie.
Fino a dieci anni fa si era riusciti a invertire il trend, poi dal 2012 è riesplosa la deforestazione, con la situazione definitivamente peggiorata con Bolsonaro. Cosa si può fare nel contesto attuale per cambiare lo stato delle cose a livello locale?
Dovremmo blindare le foreste, quindi raggiungere il famoso punto zero di deforestazione oggi, non tra dieci anni, e poi riforestare le aree depredate come previsto dall’Accordo di Parigi. Un’altra cosa da fare è sicuramente quella di aumentare la produttività delle terre che sono già state deforestate a fini agricoli, attraverso l’uso di nuove tecnologie. Lì dove si fa allevamento bovino il 63 per cento delle terre destinate a questo uso ha solo un bue per ettaro, quindi una bassissima produttività, e il 23 per cento del territorio deforestato è abbandonato. Oggi si abbattono alberi ancora invano, in perdita, questo mentre la foresta ha ancora un enorme potenziale economico non sfruttato che è quello della sua biodiversità.
Quando bruciano o si perdono, le migliaia di specie di animali e piante conosciute o non ancora catalogate dalla scienza riducono la disponibilità di risorse alimentari, energetiche, medicinali e culturali. Questo è un danno economico, una perdita di ricchezza che potrebbe invece creare posti di lavoro e reddito per le popolazioni locali. Attraverso l’uso, il commercio e la valorizzazione dei prodotti forestali possiamo proteggere la foresta e le sue ricchezze e portare allo stesso tempo uno sviluppo sostenibile, sotto forma di bioeconomia e buone pratiche.
Con la nostra onlus produciamo reddito per i nativi, ma ne esistono molte altre che fanno lo stesso e danno risultati estremamente interessanti, offrendo più guadagni alle comunità locali delle classiche piantagioni di soia. Mi riferisco ad esempio alla raccolta dell’acai, una bacca energizzante, che non richiede deforestazione; oppure agli indios Yanomami, con i quali recentemente abbiamo lavorato per la raccolta della noce brasiliana, un prodotto di grande potenziale economico, o che l’anno scorso hanno lanciato sul mercato una nuova linea di cioccolato prodotta con cacao nativo Yanomami. Insomma, è possibile uno sviluppo diverso che non sia solo predatorio.
Quale può essere invece il ruolo della comunità internazionale e di tutti noi?
A livello internazionale la strada da percorrere non è quella di puntare il dito contro un unico imputato ma riconoscere ognuno le proprie responsabilità, compresa l’Italia che importa dal Brasile carne, pellame, soia e legname. Non sempre siamo certi della provenienza di questi prodotti, le filiere di esportazione non sono trasparenti quindi possiamo lavorare per esempio sui meccanismi di importazione, sulle regole d’uso dei prodotti provenienti da paesi a rischio deforestazione.
L’Amazzonia è un bioma che genera benefici globali ma i problemi e i costi della sua protezione non possono restare soltanto locali, anche il singolo cittadino globale può fare il suo, può diventare un consumatore più consapevole. È un processo a volte complesso ma è necessario capire da dove proviene e che conseguenze ha ciò che consumiamo, se è necessario modificare le nostre abitudini, acquistare meno e in modo più informato. Questo permette di trasformare il mercato come consumatori e ancor di più come investitori, influenzando i comportamenti delle istituzioni finanziarie, quindi di quei capitali che vanno a sovvenzionare la distruzione della foresta.
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