L’efficacia dei trattati internazionali alla luce dell’art. 117, comma 1 della Costituzione
Note a margine delle sentenze 348/07 e 349/07 della corte costituzionale
di Giuseppe Bianchi
Sommario: 1 Dalla legge cost. n. 3/2001 alle sentenze nn. 348-349/07 della Corte Costituzionale: sei anni di teorie – 2. L’intervento della Corte Costituzionale – 3. I problemi irrisolti -3.1. Il procedimento di adattamento : una tecnica superata? – 3.2. La tipologia dei trattati oggetto di copertura costituzionale – 4 Diritto europeo e diritto internazionale
1) Dalla legge cost. n. 3/2001 alle sentenze nn. 348-349/07 della Corte Costituzionale: sei anni di teorie.
L’art. 117 Cost. I° comma, nella nuova formulazione introdotta con la L. cost. n. 3 /2001, dispone che l’esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni è condizionata dal rispetto degli obblighi internazionali: appare di immediata evidenza come la portata innovativa di tale disposizione non sia, a dispetto del dato meramente empirico della sua collocazione nel titolo V della Costituzione, limitata alla equiparazione della potestà legislativa regionale a quella statale, né all’introduzione di un esplicito riferimento all’ordinamento comunitario, ma si colga soprattutto in relazione all’introduzione del vincolo costituzionale, rivolto al legislatore ordinario, statale e regionale, del rispetto degli obblighi internazionali1 .
Questo è apparso il profilo radicalmente innovatore, atteso che gli obblighi internazionali, derivanti dal diritto pattizio, nel sistema precedente alla modifica del 117, non godevano di alcuna garanzia costituzionale2.
Prima della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, infatti la conformità delle leggi ordinarie alle norme di diritto internazionale convenzionale era suscettibile di controllo da parte della Corte costituzionale soltanto entro i limiti posti dagli artt. 7, 10 e 11 Costituzione.
In dettaglio quindi il sindacato poteva esercitarsi solo qualora la norma oggetto di controllo fosse riconducibile nella prospettiva di specifici accordi, quali quelli tra Stato e Chiesa (art. 7) ovvero relativi alla condizione giuridica dello straniero (art. 10 secondo comma), ovvero della consuetudine, intesa quale insieme di “ norme di diritto internazionale generalmente riconosciute” (art. 10 primo comma), o infine del diritto comunitario, il quale beneficia di ingresso automatico nell’ordinamento interno in forza dell’ art. 11, secondo cui l’Italia “ consente , in condizioni di parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”.
La presenza della norma interna avente ad oggetto materia diversa da quelle sopra descritte, se pure in tesi contrastante con il diritto internazionale, non consentiva tuttavia il controllo di costituzionalità della stessa alla stregua del parametro internazionale, potendosi tale controllo attuare solo in via diretta con la Costituzione stessa (sul punto cfr. Corte Cost. n. 223/1996). In altri termini l’opinione dominante era nel senso della irrilevanza costituzionale dell’obbligo derivante da un trattato, anche nell’ipotesi in cui fosse intervenuto il c.d. adattamento, e cioè il recepimento del trattato nel diritto interno mediante atto nazionale, inteso quale unico strumento giuridico attraverso il quale il diritto internazionale viene introdotto nell’ordinamento interno.
Appariva pertanto difficilmente ipotizzabile il giudizio di costituzionalità della norma interna per violazione di un obbligo internazionale, creando l’adattamento soltanto un rapporto di compatibilità – incompatibilità tra norme interne, aventi di solito lo stesso rango di legge ordinaria.
Si riteneva infatti che i trattati internazionali venissero ad assumere nell’ordinamento interno il medesimo rango dell’atto che avesse dato loro esecuzione. Tale orientamento, precedente alla riforma, era efficacemente sintetizzato dalla giurisprudenza costituzionale nell’affermazione secondo cui “quando l’esecuzione è avvenuta mediante legge ordinaria, [i trattati] acquistano la forza e il rango di legge ordinaria che può essere abrogata o modificata da una legge ordinaria successiva”3. Logica conseguenza era che la legge di adattamento era potenzialmente modificabile da una legge ordinaria successiva, per cui gli eventuali contrasti erano risolvibili unicamente alla stregua dei principi regolatori della successione delle leggi nel tempo, e che non poteva essere, ovviamente, assunta quale parametro del giudizio di legittimità costituzionale.
La funzione peculiare dell’adattamento, in ultima analisi, era quella di costituire una condizione necessaria di efficacia nell’ordinamento interno del trattato4.
A tale conclusione si perveniva valorizzando il primo comma dell’art. 10 Cost., quale unica disposizione di carattere generale in tema di adattamento del diritto interno a quello internazionale, dal quale si inferiva, ragionando a contrario, l’intenzione del costituente di dotare di rilevanza costituzionale solo le norme di origine consuetudinaria e non quelle di diritto internazionale convenzionale.
Tale impostazione è risultata radicalmente mutata per effetto dell’entrata in vigore del nuovo testo del primo comma dell’art. 117 Cost., a mente del quale “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto .. dei vincoli derivanti .. dagli obblighi internazionali”.
Come già rilevato, numerosi problemi di ordine logico – interpretativo si sono subito posti, atteso che ad una affermazione programmatica di tale portata, certo non del tutto correttamente valutata nel suo effetto dirompente dal legislatore costituzionale, avrebbe dovuto corrispondere una altrettanto certo e indubbio ambito di applicazione.
La dottrina successiva alla riforma ha percepito come la norma abbia inteso incidere sul sistema delle fonti di produzione, imponendo al legislatore ordinario il rispetto non più solo dei vincoli derivanti dalle consuetudini, ex art. 10, comma 1, Cost., ma anche di quelli, di gran lunga più consistenti, che discendono dai trattati internazionali. Si è ritenuto, immediatamente dopo l’entrata in vigore del nuovo testo costituzionale, che il nuovo art. 117 abbia esteso alla generalità dei trattati la soluzione prevista dal secondo comma dell’art. 10 Cost. per gli accordi internazionali relativi alla condizione giuridica dello straniero (“la condizione giuridica dello straniero è dettata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali”)5.
A conferma della riconducibilità nell’ambito della nozione di “vincoli derivanti dagli obblighi internazionali” degli impegni assunti in via pattizia, è intervenuta la Legge 5 giugno 2003, n. 131, intitolata “Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 ” (cd legge “La Loggia”).
Il primo comma dell’art. 1 dispone infatti che “costituiscono vincoli alla potestà legislativa dello Stato e delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, quelli derivanti dalle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute di cui all’art. 10 della Costituzione, da accordi di reciproca limitazione di sovranità di cui all’art. 11 della Costituzione, dall’ordinamento comunitario e dai trattati internazionali”.
Tuttavia l’entrata in vigore della legge applicativa non aveva avuto il merito di fornire una soluzione alle questioni applicative che avevano impegnato gli interpreti, le quali sono essenzialmente riconducibili a due fondamentali nodi interpretativi emersi a seguito dell’entrata in vigore del nuovo art. 117, comma primo, Cost..
Il primo profilo controverso attiene al momento a partire dal quale gli obblighi internazionali ex art. 117 Cost. devono ritenersi vincolanti rispetto al potere legislativo interno.
A riguardo si è sostenuto che il legislatore costituzionale abbia inteso creare un meccanismo di adattamento del diritto interno al diritto internazionale pattizio analogo a quello tratteggiato dall’art. 10, primo comma, Cost. per le norme di diritto internazionale consuetudinario6.
La dottrina più attenta aveva al contrario affermato che non può scorgersi nel nuovo 117, comma 1, Cost., il superamento del consolidato principio secondo cui ai fini dell’efficacia nell’ordinamento interno dei trattati internazionali si rende necessario un apposito atto di adattamento.
Il legislatore costituzionale, secondo tale tesi, infatti ha inteso incidere non sulle modalità con cui la norma internazionale convenzionale entra a far parte dell’ordinamento interno, ma esclusivamente sulla forza che questa assume una volta immessa. Dunque nulla sarebbe cambiato quanto alle modalità di ricezione dei trattati nel diritto interno, rimanendo l’ordine di esecuzione la condizione di applicabilità delle norme internazionali pattizie nell’ordinamento nazionale7.
Il resto del panorama dottrinale ha sostenuto l’interpretazione suffragata dal testo della norma, secondo cui il vincolo (inteso come obbligo di rispettare la norma internazionale) a carico del legislatore nazionale sorgerebbe per effetto del perfezionarsi dell’accordo sul piano internazionale, a prescindere dalla sua recezione nell’ordinamento interno8. In quest’ottica si evidenzia come la norma si riferisca agli obblighi internazionali, anziché alle relative norme interne di esecuzione, con la conseguenza che il trattato e non la norma interna che lo recepisce, assurgerebbe al ruolo di parametro di legittimità costituzionale in qualità di norma interposta9.
Malgrado il tenore letterale della norma in esame, appare senz’altro più convincente, come si chiarirà, la ricostruzione secondo la quale il perfezionarsi del procedimento di stipula del trattato (cioè la manifestazione del consenso ad obbligarsi da parte dell’Italia nel rispetto del diritto internazionale) non implica di per sé solo l’immissione delle norme in esso contenute nell’ordinamento interno. Tuttavia tali norme ai sensi del 1171 Cost., una volta recepite, finiscono per collocarsi nel sistema delle fonti in una posizione intermedia tra norme costituzionali e norme legislative ordinarie e per assumere il valore di norme interposte nel giudizio di legittimità costituzionale della eventuale disposizione interna antinomica10. Pertanto norme interne contrastanti con norme pattizie recepite sono da considerare illegittime per violazione della Costituzione, secondo il modello delle norme interposte.
In questa prospettiva eventuali problemi di costituzionalità di leggi interne incompatibili possono sorgere solo una volta che il trattato sia stato reso esecutivo in Italia, attraverso la legge recante adattamento secondo il procedimento ordinario ovvero attraverso quella ospitante l’ordine di esecuzione11.
Tale legge (e non la norma del trattato in via diretta) per effetto del nuovo art. 117 Cost. assume rango superlegislativo/subcostituzionale e qualità di norma interposta nel giudizio davanti alla Corte, tali da potere determinare l’illegittimità costituzionale di leggi interne con essa incompatibili.
Ulteriori posizioni dottrinali possono essere considerate vie di mezzo tra la tesi che reputa ancora necessario la procedura formale di adattamento ai fini dell’efficacia interna dei trattati e quella che ritiene possa prescindersene. In particolare si è sostenuto che non solo l’obbligo a seguito dell’adattamento formale sortirebbe il vincolo rispetto al legislatore (obbligo negativo di esercitare la funzione legislativa non in contrasto con il diritto internazionale pattizio recepito), ma già prima della recezione il perfezionarsi dell’accordo sul piano internazionale con la prestazione del consenso da parte dello Stato, produrrebbe l’obbligo positivo per il legislatore interno dare esecuzione alla disciplina pattizia12.
Il secondo aspetto problematico sul quale non fa luce la L. n. 131 concerne l’individuazione dei trattati rientranti nella sfera di applicazione del vincolo di prevalenza sancito dal primo comma dell’art. 117 Cost..
Su tale punto non offrono significativi spunti ricostruttivi neanche le sentenze 348 e 349, nelle quali la Corte costituzionale non affronta tale argomento (se non nei limiti di un riferimento implicito13), venendo nel caso di specie in rilievo un trattato che è fisiologicamente stato immesso nell’ordinamento interno con legge ordinaria previa autorizzazione alla ratifica (trattato CEDU oggetto di adattamento ad opera della legge 4 agosto 1955 “Ratifica ed esecuzione della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”).
Peraltro la legge di attuazione della norma costituzionale in esame, cd “La loggia”, non solo non aiuta a risolvere il problema in esame, ma aggiunge incertezza sotto due profili ai fini della individuazione della natura delle norme convenzionali costitutive di obblighi internazionali. Da un lato la formulazione letterale dell’art. 1, comma 1, fa riferimento ai “trattati” tout court, senza ulteriori specificazioni. Dall’altro l’interprete non è assistito dall’esame dell’andamento dei lavori parlamentari. Sotto quest’ultimo aspetto occorre infatti notare come il percorso parlamentare del comma 1 dell’art. 1 della L. n. 131 si sia concluso con l’eliminazione del riferimento, presente nel testo originario del disegno di legge, ai “trattati internazionali ratificati a seguito di legge di autorizzazione”.
Malgrado la norma costituzionale e la versione definitiva di quella attuativa appaiano riferirsi a qualunque obbligo internazionale, comunque assunto, l’analisi sistemica della Costituzione, si è osservato, porta ad escludere che possano costituire un vincolo per il legislatore i c.d. trattati in forma semplificata conclusi dal Governo14.
Altrimenti opinando bisognerebbe concludere che gli accordi in forma semplificata conclusi dall’esecutivo15 senza previa autorizzazione parlamentare (ovvero dalle Regioni ai sensi dell’art. 117 Cost. u.c.) siano idonei a condizionare l’esercizio della potestà legislativa.
In realtà la lettura del 117 in combinato disposto con l’art. 80 Cost. dimostra che la garanzia costituzionale riconosciuta dalla prima norma concerne solo i trattati ratificati dal Capo dello Stato a seguito di previa legge di autorizzazione ai sensi dell’art. 80 Cost..
Infatti se la Costituzione richiede il preventivo assenso parlamentare per la conclusione di accordi internazionali che comportano modificazioni di leggi (art. 80 cost.), è logico ritenere che lo pretenda pure (a maggior ragione) per la formazione di trattati che si traducono in un vincolo nei confronti della legge stessa16.
Dunque da un lato perché possa crearsi il vincolo a carico della legge interna risulta imposto, dall’esegesi sistematica dell’art. 117, considerare implicito il riferimento alla categoria di trattati di cui all’art. 80 e cioè a quelli ratificati previa legge di autorizzazione parlamentare.
Dall’altro è necessario che la norma convenzionale sia stata recepita (tipicamente per mezzo dell’ordine di esecuzione di norma contenuto nella stessa legge che autorizza la ratifica), conformemente al consolidato e intatto principio secondo il quale la norma del trattato è irrilevante nell’ordinamento interno finché non intervenga l’atto di adattamento.
2) L’intervento della Corte costituzionale
La Corte, finalmente chiamata a pronunciarsi sul nuovo testo dell’art. 117 nella parte in cui si riferisce agli obblighi internazionali, è intervenuta con le sentenze n. 348 e 349 del 24 ottobre 2007, che possono unitariamente essere considerate come complementari.
In particolare alcune tra le ordinanze di remissione avevano sollevato la questione di legittimità costituzionale di disposizioni legislative interne in tema di quantificazione dell’indennizzo da esproprio, per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. in relazione all’art. 6 della CEDU e soprattutto dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla stessa.
Occorre notare che sia la CEDU, sia il Protocollo addizionale sono stati recepiti in forza dell’art. 2 della legge 4 agosto 1955, n. 848, intitolata “Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952”.
Alla fine del percorso argomentativo sviluppato nelle decisioni la Corte giunge a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, commi 1, 2 e 7-bis, del decreto legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359 (e in via consequenziale, dell’art. 37, commi 1 e 2, del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327), per contrasto con la fonte interposta che integra il parametro di costituzionalità ai sensi dell’art. 117, comma 1.
Limitando l’attenzione al ragionamento svolto dalla Corte intorno alla nuova norma costituzionale, la Corte appare condividere le premesse di base cui erano giunti già gli interpreti a ridosso della riforma del titolo V della Cost..
La Corte osserva che a dispetto di una forte apertura della Carta costituzionale al rispetto del diritto internazionale (e, più in generale, delle fonti esterne), la violazione degli obblighi derivanti da trattati, non riconducibili nell’ambito degli artt. 10 e 11 Cost., da parte di leggi interne determinava (prima della riforma) l’incostituzionalità delle stesse solo in presenza della violazione diretta di norme costituzionali.
Il nuovo testo dell’art. 117, comma 1, interviene a colmare proprio tale “lacuna” del sistema.
La Corte riconosce, ricalcando le considerazioni dottrinali successive riforma, come la nuova norma costituzionale abbia inciso sul sistema delle fonti del diritto, in particolare attraverso l’attribuzione alle norme dei trattati (o meglio alle norme di adattamento agli stessi) di “una maggior forza di resistenza [all’abrogazione] rispetto a leggi ordinarie successive”. Si sancisce quindi la capitolazione del principio secondo cui le norme convenzionali internazionali assumono nel nostro sistema lo stesso rango dell’atto (legislativo o amministrativo) che abbia dato loro esecuzione.
In particolare il giudice delle leggi osserva come la struttura della nuova norma costituzionale appare “simile a quella di altre norme costituzionali, le quali sviluppano la loro concreta operatività solo se poste in stretto collegamento con altre norme, di rango sub-costituzionale destinate a dare contenuti ad un parametro che si limita ad enunciare in via generale una qualità che le leggi in esso richiamate devono possedere. Le norme necessarie a tale scopo sono di rango subordinato alla Costituzione, ma intermedio tra questa e la legge ordinaria”.
La Corte inoltre chiarisce che “proprio perché si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello sub-costituzionale, è necessario che esse siano conformi a Costituzione. La particolare natura delle stesse norme, diverse sia da quelle comunitarie sia da quelle concordatarie, fa sì che lo scrutinio di costituzionalità non possa limitarsi alla possibile lesione dei principi e dei diritti fondamentali o dei principi supremi , ma debba estendersi ad ogni profilo di contrasto tra le <norme interposte> e quelle costituzionali”.
Ne consegue che nel caso pervenuto all’esame della Corte come “in occasione di ogni questione nascente da pretesi contrasti tra norme interposte e norme legislative interne, occorre verificare congiuntamente la conformità a Costituzione di entrambe e precisamente la compatibilità della norma interposta con la Costituzione e la legittimità della norma censurata rispetto alla stessa norma interposta”.
Allargando il campo della disquisizione la Corte opera una sintesi della propria giurisprudenza maturata con riguardo alle poche disposizioni costituzionali relative ad obblighi internazionali (art 7, 10 e 11), non modificate dalla riforma del 2001, adoperandosi nel ribadire alcuni principi del diritto internazionale: “l’art. 10, primo comma, Cost., concerne esclusivamente i princìpi generali e le norme di carattere consuetudinario (per tutte, sentenze n. 73 del 2001, n. 15 del 1996, n. 168 del 1994), mentre non comprende le norme contenute in accordi internazionali che non riproducano princìpi o norme consuetudinarie del diritto internazionale. Per converso, l’art. 10, secondo comma, e l’art. 7 Cost. fanno riferimento a ben identificati accordi, concernenti rispettivamente la condizione giuridica dello straniero e i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica e pertanto non possono essere riferiti a norme convenzionali diverse da quelle espressamente menzionate. L’art. 11 Cost., è invece la disposizione che ha permesso di riconoscere alle norme comunitarie efficacia obbligatoria nel nostro ordinamento (sentenze n. 284 del 2007; n. 170 del 1984)” (sentenza n. 349, punto 6.1 ).
La Corte poi rivolge la sua attenzione al diritto dei trattati, osservando come “con riguardo alle disposizioni della CEDU, questa Corte ha più volte affermato che le medesime, rese esecutive nell’ordinamento interno con legge ordinaria, ne acquistano il rango”. Ciò in conformità all’orientamento vigente prima della riforma, prima riportato, secondo cui “quando l’esecuzione è avvenuta mediante legge ordinaria [i trattati] acquistano la forza e il rango di legge ordinaria che può essere abrogata o modificata da una legge ordinaria successiva” (Corte cost., 6 giugno 1989, n. 323).
E’ proprio il profilo del diritto internazionale pattizio quello su cui più di tutti incide la nuova formulazione del comma 1 dell’art. 117, costituendo esso il parametro che permette alla Corte di valutare la compatibilità della norma interna censurata con la norma del trattato (oggetto di adattamento).
Nel nuovo sistema dunque ogniqualvolta non sia possibile al giudice superare l’antinomia in via interpretativa17, l’incompatibilità della norma interna con quella pattizia “viola per ciò stesso” il parametro di cui al comma 1 dell’art. 117.
Si tratta di considerazioni svolte dalla Corte in relazione alla CEDU, la quale, malgrado le peculiarità che la caratterizzano18, viene, ai fini della norma in esame, considerata rientrante nel genus trattati internazionali, e dunque di affermazioni cui va riconosciuto carattere generale.
La cessione di poteri giurisdizionali che si è verificata con la ratifica della CEDU e l’attinenza della materia a valori considerati primari dalla Costituzione, non incidono sulla necessità di trattare, ai fini dell’applicazione del 117, tale convenzione come un qualsiasi altro trattato.
Né diverso trattamento potrebbe spettare alle norme CEDU in virtù dell’assunta “comunitarizzazione” delle stesse, atteso che, ad avviso della Corte, rimane ferma la distinzione tra le norme della CEDU e le norme comunitarie19
3) I problemi irrisolti
3.1) Il procedimento di adattamento: una tecnica superata?
E’ il momento di chiedersi in che modo si ponga la Corte rispetto alle questioni trattate dagli interpreti, e in particolare a quella diretta ad individuare il momento a partire dal quale la norma internazionale diventa obbligo nei confronti del legislatore, assumendo il ruolo di fonte interposta nel giudizio di costituzionalità.
Come è stato riferito, diversi erano i risultati cui si era pervenuti in ambito dottrinale.
Secondo una prima impostazione il perfezionarsi della convenzione sul piano internazionale determinerebbe il sorgere del vincolo a carico della legge interna a prescindere dal procedimento interno di adattamento, con la conseguenza che fungerebbe da norma interposta direttamente la norma del trattato e non quella interna di recepimento.
Secondo l’interpretazione opposta mai una norma internazionale pattizia può avere effetti nel nostro ordinamento senza che la stessa sia stata recepita, con la conseguenza che, almeno dal punto di vista formale, la norma interposta è costituita dall’atto interno di adattamento della norma internazionale e non da quest’ultima in via diretta.
La soluzione del problema trova tuttavia spunti di riflessione nelle decisioni della Corte, le quali tuttavia non offrono indicazioni in senso univoco, atteso che, al contrario, dalla esegesi delle sentenze emergono elementi idonei a sostenere sia la tesi della perdurante necessità della legge di adattamento sia quella del superamento della stessa.
Occorre considerare come nelle ipotesi sottoposte all’attenzione della Corte venivano in rilievo norme della CEDU, e cioè di un trattato regolarmente recepito nell’ordinamento interno con legge di adattamento. Il giudice costituzionale ha avuto allora la possibilità di non occuparsi della ipotizzabilità, e in che termini, di una efficacia dei trattati internazionali nel diritto interno a prescindere (o prima) dell’intervento dell’atto di adattamento.
In base a una prima possibile lettura potrebbe affermarsi che la assunta persistente necessità del procedimento di recezione appare espressione di una lettura decisamente involutiva della Carta costituzionale in contrasto con il precipuo connotato, sottolineato dalla Consulta, di apertura della stessa agli obblighi internazionali20.
In questa prospettiva potrebbe sembrare che la Corte, tra le varie opzioni possibili, abbia accolto quella, peraltro già proposta da parte della dottrina e suffragata dal testo della norma, secondo cui il vincolo (inteso come obbligo di rispettare la norma internazionale) a carico del legislatore nazionale sorgerebbe per effetto del perfezionarsi dell’accordo sul piano internazionale, a prescindere dalla sua recezione nell’ordinamento interno21.
D’altra parte aparirebbe evidente che, riferendosi letteralmente la norma agli obblighi internazionali, anziché alle relative norme interne di esecuzione, il trattato, e non la norma interna che lo recepisce, assurgerebbe al ruolo di parametro di legittimità costituzionale in qualità di norma interposta. E’ proprio a tale meccanismo di concreta operatività della norma sembra che intenda riferirsi la Corte, quando espressamente chiarisce che “con l’art. 117 si è realizzato in definitiva un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro , tanto da essere comunemente qualificata <norma interposta>; e che è soggetta a sua volta ad una verifica di compatibilità con le norme della Costituzione“ (n. 349/07 cit.).
Secondo questa prima lettura, la Corte approderebbe al superamento della tesi del necessario adattamento, nella considerazione che il meccanismo di tecnica legislativa, tale per cui l’art. 117 è qualificato quale norma che funge da tramite tra il diritto interno e il diritto pattizio, appare idoneo a rendere superflua, per il perfezionarsi del procedimento di stipula del trattato (cioè la manifestazione del consenso ad obbligarsi da parte dell’Italia nel rispetto del diritto internazionale), l’emanazione della legge di adattamento, mentre il richiamo alla necessaria verifica di costituzionalità della stessa “ norma interposta” sottolineerebbe come il 117 non abbia affatto introdotto una ipotesi di adattamento automatico simile a quella stabilita dall’art. 10 Cost..
Come si è anticipato, a fronte di questa che potrebbe definirsi una interpretazione delle decisioni in commento “evolutiva” e di forte apertura del diritto interno al diritto internazionale pattizio non consuetudinario, le stesse si prestano pure ad una esegesi di stampo tradizionale, intesa a limitare la protezione costituzionale offerta dall’art. 117 solo agli obblighi internazionali cd. “ di sistema”, tali perché recepiti nell’ordinamento con la legge di adattamento.
Proprio questa appare, a nostro avviso, l’interpretazione preferibile.
Ed anzi, ad una più attenta analisi, sembra essere quella che la Corte assume a presupposto delle sue affermazioni.
Nella sentenza n. 348 la Corte, nel passaggio in cui ha riguardo all’art. 117, chiarisce espressamente che ”ogni argomentazione atta ad introdurre nella pratica, anche in modo indiretto, una sorta di <adattamento automatico>, sul modello dell’art. 10, primo comma, Cost., si pone comunque in contrasto con il sistema delineato dalla Costituzione italiana”. Quest’affermazione mostra come la Corte si associa all’interpretazione secondo cui il legislatore costituzionale ha inteso incidere non sulle modalità con cui la norma internazionale convenzionale entra a far parte dell’ordinamento interno, ma esclusivamente sulla forza che questa assume una volta immessa.
Altrimenti opinando, e cioè ritenendo il trattato efficace a prescindere dall’adattamento formale, si finirebbe per parificare integralmente, almeno sotto il profilo del modo in cui la norma internazionale diventa efficace nell’ordinamento interno, la norma consuetudinaria e quella pattizia. Cioè si finirebbe per affermare che nell’attuale sistema costituzionale sia la norma di diritto generale consuetudinario, sia la norma del trattato, una volta venute in essere secondo il diritto internazionale, sono efficaci nel nostro Paese senza necessità di alcuna attività di diritto interno. Ciò si pone in palese contrasto con l’affermazione della Corte, che espressamente esclude qualsiasi automatismo nel meccanismo di adattamento alle norme dei trattati.
Pertanto tale inciso, in cui la Corte respinge la tesi dell’adattamento automatico, avvalora la tesi secondo cui nulla è cambiato quanto alle modalità di ricezione dei trattati nel diritto interno, rimanendo fermo il cementato principio secondo cui ai fini dell’efficacia nell’ordinamento interno dei trattati internazionali si rende necessario un apposito atto di adattamento.
Se questa rappresenta l’idea di fondo occorre capire se, nel pensiero della Corte, il parametro interposto introdotto dall’art. 117 sia costituito dalle disposizioni del trattato in via diretta oppure, almeno sul piano formale, dalla legge interna frutto del procedimento di adattamento.
Dall’analisi delle sentenze gemelle sembra che la Corte ragioni nella logica del primo orientamento.
La Corte infatti più volte ripete che “il parametro costituito dall’art. 117, primo comma, viene integrato e reso operativo dalle norme della CEDU”, e non, quindi, dalla legge interna che vi ha dato esecuzione22 .
Occorre però considerare come nel caso di specie venisse in rilievo l’applicazione della CEDU, la quale nel lontano 1955 fu oggetto di adattamento secondo il cd procedimento speciale, cui spesso si ricorre nella pratica. In tali ipotesi il legislatore non formula norme complete ma si limita ad operare un mero rinvio alle norme del trattato, e cioè si limita ad ordinare l’osservanza delle norme pattizie così come esse vigono e finché esse vigono nell’ordinamento internazionale. Proprio ciò che è avvenuto per mezzo dell’art 2 della legge 4 agosto 1955, n. 848, (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), a mente del quale “piena ed intera esecuzione è data alla Convenzione e Protocollo suddetti, a decorrere dalla data della loro entrata in vigore“.
Risulta chiaro che in queste ipotesi in cui l’ordine di esecuzione opera un rinvio mobile, la norma interposta dal punto di vista sostanziale è contenuta nell’atto internazionale, il quale risulta solo formalmente veicolato nell’ordinamento nazionale ad opera dell’atto interno di adattamento, che ordina l’osservanza delle norme del trattato.
In altre parole nelle ipotesi di adattamento secondo il procedimento speciale dal punto di vista dell’interprete riferirsi all’atto interno che ospita il rinvio mobile (l’art. 2 della legge del 1955) rappresenterebbe un inutile formalismo, atteso che dal punto di vista sostanziale l’unica norma esistente coincide con quella internazionale.
Ciò non toglie che dal punto di vista teorico, se si ritiene necessario il procedimento di adattamento, la norma interposta è costituita dall’atto di adattamento.
Dunque la Corte, privilegiando l’aspetto sostanziale, si riferisce all’incompatibilità della disposizione interna con la norma del trattato, anche se, sul piano formale, la norma del trattato rileva per il nostro diritto in quanto contenuta nella legge di recepimento.
La necessità di tenere distinto l’aspetto formale (le norme CEDU entrano nel nostro ordinamento per effetto dell’ordine di esecuzione, e in questo senso sono in esse contenute) da quello sostanziale (l’interprete la norma sostanziale la può conoscere solo leggendo direttamente il trattato, non certo attraverso la lettura dell’ordine di esecuzione) emerge in altro inciso della sentenza.
La Corte enunciando il principio secondo cui la norma interposta invocata deve preliminarmente essa stessa essere considerata costituzionalmente compatibile, afferma che “nell’ipotesi di una norma interposta che risulti in contrasto con una norma costituzionale, questa Corte ha il dovere di dichiarare l’inidoneità della stessa ad integrare il parametro, provvedendo, nei modi rituali, ad espungerla dall’ordinamento giuridico italiano” (sentenza n. 348, punto 4.7).
Il riferimento ai modi rituali di espunzione della norma interposta dall’ordinamento, conferma come essa sia costituita dalla legge interna di adattamento e non dal trattato in via diretta. Il “modo rituale” di eliminazione della norma non potrà infatti che essere l’annullamento per mano della Corte dell’atto di adattamento23.
Aderendo alla tesi dottrinale secondo cui i trattati internazionali, una volta stipulati dagli organi competenti, sarebbero efficaci a prescindere dal procedimento formale di adattamento, risulterebbe difficile comprendere quali armi la Corte costituzionale avrebbe a disposizione per provvedere ad espungere la norma internazionale dal diritto interno.
La chiarificazione definitiva sulla questione è fornita dalla decisione n. 349. Nel passaggio in cui affronta la novità costituita dal nuovo testo dell’art. 117, comma 1, la Corte descrive le norme qualificabili “interposte” ai sensi della medesima norma come “norme contenute in accordi internazionali oggetto di una legge ordinaria di adattamento” (punto 6.2).
Quest’ultimo inciso palesa che l’impostazione di fondo della Corte rimane quella secondo cui la norma internazionale pattizia non è mai efficace a prescindere dalla procedura di adattamento, con la conseguenza che eventuali questioni di legittimità costituzionale possono porsi solo dopo che sia intervenuto l’atto che recepisce nell’ordinamento interno la norma internazionale.
Il procedimento formale di adattamento non costituisce presupposto di efficacia nel diritto interno solo24 per le norme di diritto generale ai sensi dell’art. 10 Cost. e per quelle comunitarie provviste di cd effetti diretti ai sensi dell’art. 11 Cost. (come interpretato nella storica sentenza n. 170 del 1984).
In particolare rivolgendo l’attenzione al diritto comunitario, la caratteristica dell’effetto diretto di alcune norme comunitarie consiste proprio nel fatto che esse sono efficaci a prescindere dall’adattamento, e cioè nel fatto che l’operatività di queste norme non è condizionata nei tempi e nei modi dai meccanismi di adeguamento, trasposizione ed attuazione predisposti dal sistema costituzionale.
Tale eccezione risulta giustificata dalla copertura fornita dall’art. 11 Cost. all’ordinamento comunitario e non certo dalla nuova versione dell’art. 117, comma 1.
Nella prospettiva del diritto comunitario la indiscutibilità del principio del necessario adattamento può apprezzarsi soprattutto in relazione alla considerazione che, in fondo, “è ancora a mezzo degli strumenti costituzionali di adattamento ed attuazione degli Stati membri che viene instaurato e regolato il rapporto tra il diritto comunitario e il diritto interno”25. Si vuole cioè dire che il fondamento primo del potere degli organi comunitari di confezionare norme immediatamente efficaci, va ricondotto in ultima analisi alle norme di recepimento dei trattati istitutivi della comunità.
Allora, per concludere sul punto, se l’adeguamento formale rappresenta ancora il fenomeno cui ricondurre l’efficacia nel nostro ordinamento del diritto comunitario, non si vede come da esso possa prescindersi affinché gli obblighi internazionali pattizi sortiscano effetti nel nostro ordinamento.
3.2) La tipologia di trattati oggetto della copertura costituzionale
Sotto diverso profilo deve registrarsi un riferimento della Corte, molto timido, al dibattito svoltosi attorno alle caratteristiche di formazione che deve avere (o meno) un trattato perché possa essere attratto nell’orbita applicativa della norma in esame.
Il giudice costituzionale, riferendosi alle norme di diritto internazionale che assurgono a parametro in base al meccanismo delineato dall’art. 117, le definisce “norme contenute in accordi internazionali oggetto di una legge ordinaria di adattamento”.
Attraverso il riferimento alla “legge ordinaria di adattamento” la Corte sembra aderire, sebbene in via assolutamente parentetica, a quell’impostazione dottrinale (cfr par. 1) che considera inderogabilmente necessaria la partecipazione del Parlamento alla formazione del trattato, affinché possa sorgere l’obbligo internazionale ex art. 117 a carico del legislatore ordinario stesso.
In sede dottrinale si era infatti sostenuto che sarebbero produttivi degli obblighi internazionali di cui al 117 solo i trattati di cui all’art. 80 Cost., cioè quelli la cui ratifica sia preventivamente autorizzata con legge parlamentare. Infatti, si era correttamente osservato, se la Costituzione richiede il preventivo assenso parlamentare per la conclusione di accordi internazionali che comportano modificazioni di leggi, è logico ritenere che lo pretenda pure (a maggior ragione) per la formazione di trattati che si traducono in un vincolo nei confronti della legge stessa.
A tale questione però la Corte non si riferisce, neanche implicitamente; pertanto nulla può trarsi dalle parole della Corte a sostegno o a detrimento della tesi secondo cui ai fini del 117 rileverebbero esclusivamente i trattati (non solo recepiti con legge), ma la cui ratifica sia previamente autorizzata dal Parlamento.
Dal riferimento operato alla “legge ordinaria di adattamento” potrebbe invece indursi la necessità che il trattato, per assurgere a vincolo a carico della potestà legislativa, debba essere recepito nell’ordinamento interno con atto avente rango primario.
Sul punto occorre ripetere le considerazioni già svolte, sottolineando come nel nostro sistema costituzionale la competenza a ratificare i trattati internazionali costituisce attribuzione del Presidente della Repubblica. Trattasi di atto cd formalmente presidenziale ma sostanzialmente governativo, con la conseguenza che spettano all’esecutivo le decisioni in ordine alla negoziazione, conclusione e alla ratifica dei trattati.
Voler svincolare la prevalenza segnata dal nuovo primo comma dell’art. 117 dalla volontà parlamentare, significherebbe ammettere che il potere esecutivo possa nell’esercizio del cd “potere estero” vincolare lo svolgimento della potestà legislativa. Ciò che rappresenterebbe un paradosso nel nostro sistema, che nel disegnare il circuito corpo elettorale-potere legislativo-governo, ha costruito il potere esecutivo come emanazione della (maggioranza della) assemblea parlamentare.
4) Diritto europeo e diritto internazionale
Da ultimo occorre riflettere sulle differenze che concernono l’assetto dei rapporti del nostro sistema con l’ordinamento comunitario da un lato, e con il diritto internazionale pattizio dall’altro.
Non può infatti non evidenziarsi come emerga un nuovo sistema costituzionale che tratta in modo diverso la soluzione delle antinomie normative, a seconda che l’incompatibilità della legge interna riguardi norme comunitarie ad effetti diretti ovvero la generalità degli obblighi internazionali (e di quelli comunitari non aventi effetti diretti). Nel primo caso la supremazia del diritto comunitario è assicurata dal meccanismo della disapplicazione operata dal singolo giudice, mentre nel secondo la prevalenza della norma internazionale transita, come osservato, attraverso la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma interna in conflitto da parte della Corte26.
Bisogna cioè confrontarsi con la nuova impostazione derivante dalla Carta costituzionale così come interpretata dalla Corte, in base alla quale la garanzia sancita dal primo comma dell’art. 117, letta attraverso l’interpretazione congiunta dell’art. 11 Cost., opera in modo non uniforme rispetto ai vincoli comunitari e a quelli internazionali.
Sul punto la Corte afferma che “l’art. 117. primo comma, Cost., nel testo introdotto nel 2001 … distingue in modo significativo, i vincoli derivanti dall’«ordinamento comunitario» da quelli riconducibili agli «obblighi internazionali»”.
Senonché la differenza tra i due profili non può fondarsi sul primo comma 117, atteso che la struttura della norma, a parte l’uso di terminologie differenti (“ordinamento comunitario” “obblighi internazionali”), pone i due limiti nella stessa posizione a fronte dell’esercizio della potestà legislativa (come è reso evidente dall’uso della congiunzione “e”).
In realtà il diverso atteggiarsi dell’ordinamento rispetto al diritto comunitario (ad effetti diretti) e al diritto internazionale convenzionale non può che giustificarsi sulla base dell’art 11 Cost., come interpretato dalla giurisprudenza della Corte. La norma che la Corte costituzionale aveva posto alla base della cd primazia del diritto comunitario rispetto alle fonti interne, è l’addentellato costituzionale che giustifica una diversa reazione dell’ordinamento a seconda che l’incompatibilità derivi dal limite rappresentato dal diritto comunitario avente effetti diretti o da quello degli obblighi internazionali pattizi.
E allora la speciale copertura costituzionale che l’art. 11 riconosce alle norme comunitarie rende conto della diversa terminologia che il legislatore costituzionale ha adoperato.
La stessa Corte evidenzia come la terminologia differente (“ordinamento comunitario” “obblighi internazionali”) riflette la diversa natura dei trattati comunitari rispetto alla generalità dei trattati internazionali. Attraverso il richiamo all’art. 11 la Corte sottolinea che “con l’adesione ai Trattati comunitari, l’Italia è entrata a far parte di un ordinamento più ampio, di natura sopranazionale, cedendo parte della sua sovranità, anche in riferimento al potere legislativo, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi, con il solo limite dell’intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione”.
Risulta allora chiaro che l’impatto nell’ordinamento di un normale trattato internazionale, per quanto “panciuto ” possa essere, non può certo paragonarsi alle dimensioni proprie del fenomeno di penetrazione dell’ordinamento comunitario nel diritto interno. Tale (com)penetrazione ha rappresentato un’autentica cessione di sovranità statale agli organi comunitari, che conosce il suo massimo esprimersi nell’esistenza di competenze esclusive dell’UE, rispetto alle quali si pone la totale rinuncia dello Stato a legiferare. In queste materie di cd competenza esclusiva allo Stato non solo è impedito di legiferare in maniera difforme, ma allo stesso non è dato legiferare in assoluto, essendosi esso spogliato della potestà legislativa a vantaggio dell’UE.
E’ proprio attraverso la rielaborazione in via interpretativa della clausola di cui all’art. 11 Cost., che la giurisprudenza della Corte è giunta a costruire il cd “effetto diretto” di alcune norme comunitarie e a riconoscere il conseguente potere del giudice di disapplicare la norma interna contrastante (Corte cost., 5 giugno 1984, n. 170).
Con riferimento al macrocosmo delle norme diverse da quelle comunitarie ad effetti diretti non è invece riscontrabile alcuna cessione della sovranità nazionale tale da determinare, per via dell’art. 11, l’effetto diretto e consentire il potere diffuso di disapplicazione. In queste ipotesi l’unico strumento in mano al giudice è rappresentato dall’incidente di costituzionalità secondo il modello accentrato.
Verrebbe da chiedersi infine se la legge interna contrastante con il diritto comunitario, possa essere considerata non solo disapplicabile ex art 11 Cost., ma anche e soprattutto illegittima per violazione indiretta della norma in esame , e pertanto suscettibile di annullamento per mano della Corte costituzionale.
Infatti, come si è osservato, il primo comma dell’art. 117, sotto profilo del vincolo a carico al legislatore, pone sullo stesso piano i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e quelli derivanti dagli obblighi internazionali.
Risulta allora difficile comprendere perché il risultato di prevalenza possa essere assicurato tramite l’intervento caducatorio della Corte solo laddove l’incompatibilità riguardi il diritto internazionale, e non anche quando si profili rispetto alle norme comunitarie ad effetti diretti.
Questa conclusione potrebbe essere di non scarsa utilità pratica tenuto conto che il meccanismo della disapplicazione non elimina definitivamente la norma illegittima dall’ordinamento ma ne neutralizza l’operare limitatamente alla singola controversia27. Con la conseguenza che la norma illegittima non essendo incisa sul piano della validità, rimane formalmente in vigore, caratterizzata tuttavia dal paradosso che non potrà essere applicata da chi sia chiamato ad interpretarla.
Invece il sistema della dichiarazione di illegittimità costituzionale, cancellando la norma illegittima dall’ordinamento con effetto ex tunc ed erga omnes, raggiunge un risultato senz’altro maggiore in termini di certezza del diritto e di non contraddizione dell’ordinamento giuridico.
La soluzione che riconoscesse la ammissibilità del ricorso alla Corte a fronte del contrasto con la norma comunitaria, tuttavia imporrebbe notevoli difficoltà di applicazione nell’ambito del nostro sistema di giustizia costituzionale, nel quale al giudice comune spetta il potere di proporre la questione “in via incidentale”.
In particolare occorre che la questione da sollevare si presenti come rilevante, e cioè è necessario che essa attenga ad una delle discipline legislative applicabili nel giudizio a quo28.
Sarebbe invece arduo per il giudice a quo motivare l’utilità di un’eventuale annullamento della norma, considerato che l’ordinamento gli riconosce già il potere di disapplicarla, cioè di considerarla tanquam non esset ai fini della decisione. Potendo fingere che la norma non esista, si pone per il giudice come del tutto indifferente l’eventuale annullamento della stessa ad opera della Corte.
Dunque la necessaria incidentalità, intesa come necessaria pregiudizialità della questione rispetto al giudizio di origine, costituisce l’ostacolo processuale all’applicazione della medesima soluzione ad entrambe le ipotesi considerate dall’art. 117, comma 1.
Il contrasto con il diritto comunitario potrà essere fatto valere come vizio di legittimità costituzionale solo nei limiti e nel diverso contesto del giudizio in via principale29, mentre a disposizione del giudice comune residua solo il potere di disapplicazione della norma anticomunitaria.
Il diverso trattamento che la Corte riserva al diritto comunitario rispetto a quello internazionale emerge infine anche sotto il profilo dell’ampiezza del parametro di sindacato della conformità di tali norme al sistema costituzionale. In particolare nella sentenza 348 si legge che la diversità della norma internazionale rispetto a quella comunitaria “fa sì che lo scrutinio di costituzionalità non possa limitarsi alla possibile lesione dei principi e dei diritti fondamentali o dei principi supremi , ma debba estendersi ad ogni profilo di contrasto tra le <norme interposte> e quelle costituzionali”.
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1 Ciò che è stato subito avvertito dalla dottrina più attenta nonché dalla giurisprudenza, che aveva tuttavia abilmente tentato di aggirare quello che era apparso essere problema interpretativo di peculiare rilievo. In particolare la giurisprudenza della Corte di cassazione se da un lato aveva sollevato le questioni che hanno originato le sentenze in commento, dall’altro si era astenuta dal dare applicazione alla nuova norma costituzionale; infatti, anche dopo la riforma, nel risolvere i conflitti tra disposizioni interne e norme di trattati a favore delle seconde, la Corte ha fatto ricorso al principio di specialità: “la regolamentazione di un rapporto contenuta in un trattato internazionale ratificato da legge interna, trova fondamento nella Costituzione (artt. 10 e 117) e costituisce disciplina eccezionale, non applicabile se non nei casi previsti (art. 14 preleggi), in deroga alle previsioni normatiove sulla successione delle leggi nel tempo ” (Cass., sez. I, 5352/2007).
2 L’inesistenza di una garanzia costituzionale per i trattati internazionali si ricavava, a contrario, dall’art. 10, primo comma Cost., norma che si riferisce al solo diritto consuetudinario. L’introduzione di tale garanzia rappresenterebbe “la vera novità dell’art. 117, 1 comma”, secondo Salerno F., Il neo-dualismo della Corte costituzionale nei rapporti tra diritto internazionale e diritto interno, in Rivista di diritto internazionale, 2006, pag. 340.
3 “L’adattamento alle norme internazionali patrizie avviene per ogni singolo trattato con un atto ad hoc consistente nell’ordine di esecuzione adottato di regola con legge ordinaria. Ne consegue che i trattati internazionali vengono ad assumere nell’ordinamento la medesima posizione dell’atto che ha dato loro esecuzione. Quando l’esecuzione è avvenuta mediante legge ordinaria essi acquistano pertanto la forza e il rango di legge ordinaria che può essere abrogata o modificata da una legge ordinaria successiva”, ( Corte cost., 6 giugno 1989, n. 323).
4 Cass., 26 luglio 1964, n. 2093, in Foro it., 1964, I, pag. 2078; Cass., Sez. Un., 21 marzo 1967, n. 631.
5 Conforti B., Diritto internazionale, Napoli, 2002, pag. 321.
6 D’Atena A., La nuova disciplina costituzionale dei rapporti internazionali e con l’Unione europea, in Rass. parl., 2002, pag. 924, ammette “la plausibilità della conclusione che la disposizione dia vita ad un dispositivo di adattamento automatico al diritto internazionale pattizio (analogamente a quanto già si verificava per il diritto internazionale generale)”.
7 Conforti B., Sulle recenti modifiche della costituzione italiana in tema di rispetto degli obblighi internazionali e comunitari, in Foro it., 2002, pag. 229; Di Paolo D., Esame dei vincoli alla potestà legislativa dello Stato e delle Regioni nella legge 5 giugno 2003, n. 131, in Regioni e comunità locali, 2005, III, pag. 13; Gerbasi G., I vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali nel nuovo Titolo V: difficoltà interpretative tra continuità e discontinuità rispetto al precedente assetto, in Gambino, Il nuovo ordinamento regionale, Giuffré, 2003.
8 In questo senso Sorrentino F., Nuovi profili costituzionali dei rapporti tra diritto interno e diritto comunitario, in Dir. pubbl. comp. ed europeo, 2002, pag. 1355; secondo l’Autore “posto che l’obbligo internazionale si perfeziona con la stipulazione dell’accordo e con la ratifica del trattato, il suo rispetto prescinde dall’an come dal quando esso sia recepito nell’ordinamento interno e dalla stessa osservanza delle norme costituzionali relative ai procedimenti di formazione della volontà statale nei rapporti internazionali”. Inoltre tale dottrina ascrive alla nozione di obbligo internazionale una valenza duplice, intendendolo non solo come obbligo del legislatore di rispettare la norma internazionale, ma, ancor prima, di recepirla nel diritto interno.
9 Ghera F., I vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali nei confronti della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni, in Carnevale-Modugno, Trasformazioni della funzione legislativa, Milano, Giuffrè, 2003, pag. 69. Analogamente Salerno F., op. cit..
10 Sono quindi suscettibili fungere da parametro interposto nel giudizio davanti alla Corte non le norme del trattato, ma la legge interna recante le norme di adattamento ad esso; in questo senso Treves T., Diritto internazionale problemi fondamentali, Giuffré, 2005, pag. 692.
11 L’adattamento ai trattati internazionali può verificarsi secondo il procedimento ordinario, col quale la disciplina internazionale viene riformulata nel diritto interno, ovvero in caso di trattati suscettivi di self-executing secondo il procedimento speciale, nel quale l’atto interno di recepimento (ordine di esecuzione), si limita a dare “piena ed intera esecuzione” al trattato, senza riprodurre la norma internazionale.
12 Ivaldi P., L’adattamento del diritto interno al diritto internazionale, in Istituzioni di diritto internazionale, Carbone, Luzzatto, Santa Maria, Torino, 2006; secondo l’autore dal 117 primo comma deriverebbe a carico del legislatore l’obbligo positivo di attuazione dei trattati internazionali in vigore per il nostro Paese.
Secondo altra dottrina il trattato perfezionato dal punto di vista internazionale sarebbe immediatamente vincolante per il legislatore (in senso sia negativo che positivo) già prima dalla sua recezione nel diritto interno, ma non sarebbe efficace nei confronti di soggetti diversi dallo Stato a prescindere dall’adattamento, Anzon A., I poteri delle Regioni dopo la riforma costituzionale, Torino, 2002, pag. 224.; De Bernardin L., Gli obblighi internazionali come vincolo al legislatore: la “lezione” francese, in Dir. pubbl. comp. ed europeo, IV, pag. 2039.
Anche a voler ritenere, come tale dottrina, che la lettera della norma costituzionale imponga la lettura secondo cui il trattato una volta perfezionato sancisce un obbligo positivo di attuazione a carico dello Stato, va però aggiunto che il vincolo di prevalenza rispetto alla legge ordinaria sorge non quando lo Stato abbia manifestato il proprio consenso e il trattato sia in vigore sul piano internazionale, ma solo quando questo abbia ricevuto attuazione nell’ordinamento interno, mediante idonee misure di adattamento (ordinarie o speciali, in ogni caso, come si chiarirà, tramite legge).
Anche a voler ritenere, come tale dottrina, che la lettera della norma costituzionale imponga la lettura secondo cui il trattato una volta perfezionato sancisce un obbligo positivo di attuazione a carico dello Stato, va però aggiunto che il vincolo di prevalenza rispetto alla legge ordinaria sorge non quando lo Stato abbia manifestato il proprio consenso e il trattato sia in vigore sul piano internazionale, ma solo quando questo abbia ricevuto attuazione nell’ordinamento interno, mediante idonee misure di adattamento (ordinarie o speciali, in ogni caso, come si chiarirà, tramite legge).
13 Come sarà evidenziato nella parte finale.
14 Bartolomei L., La garanzia costituzionale dei trattati alla luce della legge 5 giugno 2003, n. 231 contenente disposizioni per l’adeguamento alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, in Rivista di diritto internazionale privato e processuale, 2003, pag. 853; D’Atena, op. cit.; Cavaleri P., Articolo 1, in Cavaleri, Lamarque, L’attuazione del nuovo titolo V, Commento alla legge “La Loggia”, Torino, Giappichelli, 2003, pag. 6.
15 L’art. 87 Cost. attribuisce al Presidente della Repubblica il potere di ratificare i trattati internazionali (intendendosi per ratifica l’atto attraverso il quale lo Stato esprime il consenso a vincolarsi sul piano internazionale). Trattasi tuttavia di atto formalmente presidenziale ma sostanzialmente governativo, con la conseguenza che spettano all’esecutivo le decisioni in ordine alla negoziazione, conclusione e alla ratifica dei trattati.
16 D’Atena, op. cit.; Treves T., Diritto internazionale, Milano , 2006, pag. 692; Bartolomei L., op. cit.; Caretti P., Stato, Regioni, enti locali tra innovazione e continuità, Torino, 2003, pag. 63; Ghera F., op. cit. pag. 58; Ivaldi P., op. cit.. Si discosta dalla dottrina unanime De Bernardin L., op. cit., a giudizio della quale “non appare possibile ridurre in via interpretativa la portata del nuovo art. 117, c. 1”, con la conseguenza che sarebbero coperti dalla garanzia costituzionale anche gli accordi in forma semplificata conclusi dall’esecutivo, salvo il ruolo della Corte di garantire la corretta applicazione della norma costituzionale.
17 “Al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme. Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale ‘interposta’, egli deve investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117, primo comma” (sent. 349, punto 6.2)
18 La CEDU presenta due caratteristiche che la rendono diversa da un normale trattato internazionale: da un lato essa prevede la competenza di un organo giurisdizionale cui è affidata la funzione di interpretare le norme della convenzione stessa; dall’altro si tratta di norme che operano nell’ambito della tutela dei diritti fondamentali, e quindi integrano l’attuazione di principi e valori costituzionali. Valorizzando le peculiarità della CEDU la sentenza n. 10 del 1993 aveva affermato trattarsi di “fonte riconducibile a una competenza atipica insuscettibile di abrogazione da parte di disposizioni di legge ordinaria”. Tale precedente era rimasto tuttavia isolato a fronte dell’orientamento dominante che attribuiva alla CEDU il rango dell’atto – legge ordinaria – che la ha resa esecutiva nel nostro ordinamento.
Nel pensiero della Corte le peculiarità della CEDU non rilevano per attribuire alla stessa un diverso trattamento di fronte all’art 117, comma 1, rispetto a qualsiasi altro trattato. Tuttavia rimangono alcuni profili di specificità per i quali non può evidentemente valere l’assimilazione della CEDU a una normale norma di diritto internazionale pattizio. Infatti la Corte chiarisce che la norma della CEDU funziona da parametro così come essa stessa è stata interpretata dalla Corte di Strasburgo: “poiché le norme giuridiche vivono nell’interpretazione che ne danno gli operatori del diritto, i giudici in primo luogo, la naturale conseguenza che deriva dall’art. 32, paragrafo 1, della Convenzione è che tra gli obblighi internazionali assunti dall’Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione”; “poiché le norme della CEDU vivono nell’interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea, la verifica deve riguardare la norma come prodotto dell’interpretazione, non la disposizione in sé e per sé considerata”.
19 “La distinzione tra le norme CEDU e le norme comunitarie deve essere ribadita nel presente procedimento nei termini stabiliti dalla pregressa giurisprudenza di questa Corte, nel senso che le prime, pur rivestendo grande rilevanza, in quanto tutelano e valorizzano i diritti e le libertà fondamentali delle persone, sono pur sempre norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell’ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudici nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le norme interne in eventuale contrasto” (sent. 348, punto 3.3).
20 La Corte ritiene che “uno degli elementi caratterizzanti dell’ordinamento giuridico fondato sulla Costituzione” sia “costituito dalla forte apertura al rispetto del diritto internazionale e più in generale delle fonti esterne”.
21 In questo senso, prima delle pronunce, Sorrentino F., Nuovi profili costituzionali dei rapporti tra diritto interno e diritto comunitario, in Dir. pubbl. comp. ed europeo, 2002, pag. 1355.
22 “Il nuovo testo dell’art. 117, primo comma, Cost, .. rende inconfutabile la maggior forza di resistenza delle norme CEDU rispetto a leggi ordinarie successive” (punto 4.3); “le norme della CEDU integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello sub-costituzionale” (punto 4.7); “lo scrutinio di legittimità costituzionale chiesto dalla Corte rimettente deve essere condotto in modo da verificare: a) se effettivamente vi sia contrasto non risolvibile in via interpretativa tra la norma censurata e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte europea ed assunte come fonti integratrici del parametro di costituzionalità di cui all’art. 117, primo comma, Cost.; b) se le norme della CEDU invocate come integrazione del parametro, nell’interpretazione ad esse data dalla medesima Corte, siano compatibili con l’ordinamento costituzionale italiano” (punto 5).
23 Secondo la diversa interpretazione dei primissimi commentatori il riferimento ai “modi rituali” starebbe a significare che “occorre denunciare la Convenzione, nei termini e nei modi dalla stessa previsti, per sottrarsi agli obblighi dichiarati contrari alla Costituzione” e dunque occorrerebbe che ”lo Stato italiano si sottragga all’obbligo internazionale assunto“ (Zanghi C., La Corte costituzionale risolve un primo contrasto con la corte europea dei diritti dell’uomo ed interpreta l’art. 117 della Costituzione: le sentenze 348 e 349, in www.giurcost.org). Tale lettura appare tuttavia incompatibile con il messaggio che la Corte intendeva fornire. Infatti nella decisione si legge che “nell’ipotesi di una norma interposta che risulti in contrasto con una norma costituzionale, questa Corte ha il dovere di dichiarare l’inidoneità della stessa ad integrare il parametro, provvedendo, nei modi rituali, ad espungerla dall’ordinamento giuridico italiano”. Dunque, nell’impostazione della Corte, spetta ad essa stessa l’eliminazione della norma internazionale incostituzionale dall’ordinamento, e non al Governo attraverso la liberazione dall’impegno nei modi previsti dal diritto internazionale.
24 Rimanendo a parte le ipotesi di norme concordatarie e relative alla condizione giuridica dello straniero, che concernono casi specifici.
25 Tesauro G., Diritto comunitario, CEDAM, 2001, pag. 169. Si consideri che si tratta del redattore della sentenza n. 349.
26 Con riferimento agli obblighi internazionali si ripropone cioè la tesi in passato sostenuta dalla stessa Corte con riferimento al diritto comunitario. Infatti secondo l’orientamento della giurisprudenza costituzionale precedente a quello attuale (inaugurato da sentenza 8 giugno 1984, n. 170), l’incompatibilità della norma interna con il diritto comunitario si presentava come una questione di legittimità costituzionale, spettando alla Corte far prevalere la norma comunitaria mediante la dichiarazione di incostituzionalità della norma interna contrastante (sentenza 30 ottobre 1975 , n. 232).
27La citata sentenza n. 170/84, che ha inaugurato l’ultimo orientamento della Corte, ha affermato che la norma interna contrastante con quella comunitaria (provvista di effetto diretto) non può venire in rilievo per la disciplina concreta del rapporto da parte del singolo giudice: tale norma non è né nulla, né invalida, ma solo inapplicabile al rapporto controverso.
28Paladin L, Diritto costituzionale, CEDAM, 1998, pag. 727.
29 In realtà la denuncia dell’illegittimità comunitaria di una legge interna nel giudizio in via di azione potrebbe anch’essa essere considerata inammissibile, atteso che non solo il giudice ma anche le amministrazioni pubbliche, in primis Stato e Regioni, sono tenuti a disapplicare la norma interna anticomunitaria (Corte cost. n. 389/89; 168/91).
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