Il Martini, la Coca Cola, la tavola imbandita. I divani letto, la televisione accesa. La famiglia, gli “uomini d’onore”, le mogli e i figli riuniti attorno al tavolo. Non rideva, Giovanni Brusca, il 20 maggio del 1996, quando fu arrestato in una villa in provincia di Agrigento, assieme al fratello Enzo Salvatore.
La mafia, l’arresto e la collaborazione con la giustizia di Giovanni Brusca
La camicia celeste, la barba lunga. Le fotografie di uno dei più pericolosi boss di Cosa Nostra lo ritrassero con lo sguardo basso, manette ai polsi dietro la schiena, mentre era circondato dai volti incappucciati degli uomini della squadra mobile di Palermo. Brusca sapeva che avrebbe passato molto tempo in galera. C’è rimasto 25 anni. Fino al 31 maggio 2021, quando è stato liberato per aver terminato di scontare la pena. Per quattro anni resterà in libertà vigilata.
In due decenni e mezzo passati in carcere Giovanni Brusca, uno dei più sanguinari mafiosi della storia, ha scelto la strada della collaborazione con la giustizia. Nel corso del tempo, ha confessato e poi aiutato gli inquirenti a ricostruire il mosaico della criminalità organizzata. Lui, che fu per anni il faccio destro del capo dei capi, Totò Riina, morto in carcere a Parma il 17 novembre 2017.
Il delitto più atroce: quello del piccolo Giuseppe Di Matteo
Noto nelle cosche come “u verru” (il porco), Giovanni Brusca nacque a San Giuseppe Jato, nell’entroterra palermitano, il 20 febbraio 1957. Guidò il mandamento locale dei corleonesi e fu condannato per un centinaio di omicidi. Tra questi, quello che costò la vita al piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino, barbaramente strangolato e sciolto nell’acido dopo essere stato rapito per 779 giorni. Brusca si assunse paternità e responsabilità dell’efferato delitto. Così come della strage di Capaci, nella quale furono uccisi il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, e gli uomini della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonino Montinaro.
Brusca, alle 17:58 di quel 23 maggio 1992, era appostato sulla collina che sovrasta l’Isola delle Femmine, tra Palermo e l’aeroporto. Da lì, vide l’aereo sul quale viaggiava Falcone atterrare a Punta Raisi. Vide da lontano, binocolo puntato sull’autostrada, la Fiat Croma che avrebbe dovuto portarlo a Palermo avanzare verso lo svincolo di Capaci. E fu lui a premere il pulsante che fece detonare il tritolo, saltare in aria la carreggiata, volare la prima auto della scorta, distruggere metà di quella che ospitava il giudice e la moglie.
Brusca azionò il detonatore che fece saltare in aria Giovanni Falcone
“L’ho ammazzato io”, disse Brusca. Che prima aveva partecipato anche all’assassinio del giudice Rocco Chinnici, ideatore del pool antimafia. Del quale fecero poi parte – oltre a Falcone – Paolo Borsellino, Antonino Caponnetto, Giuseppe Di Lello Finuoli e Leonardo Guarnotta, e le cui inchieste segnarono l’inizio della fine di Cosa Nostra.
Un killer spietato, che ha dichiarato di aver commesso tra 100 e 200 omicidi: “Non ne ricordo più i nomi uno per uno”. Dopo l’arresto nel 1996 e il “pentimento”, gli è stato riconosciuto uno sconto di pena rispetto all’ergastolo al quale era stato condannato. Lunedì 31 maggio, in serata, Giovanni Brusca, all’età di 64 anni, ha varcato la soglia del carcere di Rebibbia a Roma. L’augurio, per lui e soprattutto per la memoria delle sue vittime, è che neanche stavolta abbia avuto il coraggio di sorridere.
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